Carmine: Elenco d’incitamenti che si rintana sotto la lingua.
Come forme prive d’ogni formalità.
Questa cosa, questa consistenza senza gravità, non si chiama in alcun modo. Vige, respira.
Si potrebbe dire che è l’aria tra le parole. Ma anche no.
Esser qui senza nulla da dire e sentirmi a casa.
In un affetto della presenza. Del presentire. Non del presente che ci rincorre invano.
Donatella: Il vuoto che mi divora quando mi pongo di fronte all’amore – di fronte a cosa poi? In faccia a questo volto che si sfoglia al pensiero.
L’idea di comporne un discorso, mi riesce piuttosto nauseante. Lo faccio per te, perché tu abbia una corda di parole con cui strozzare le tue incongruenze.
Riconosco la tensione, mi preparo al tiro. Spesso si risolve in una sfilacciatura della mia presenza, una cascata leggera, qualcosa di ridicolo e già sentito con cui incorniciarmi l’inguine, rendermi presentabile agli occhi dell’amante in potenza che tu incarni ogni giorno.
Il fatto è che la poesia mi stanca, la ricerca mi distrugge, le tracce che dispongono concetti mi annoiano. Io non sono fatta per la scrittura, ma per in-scrivermi in ogni scrittura possibile. Per una strana ragione che qui mi pongo di indagare, con quest’inspiegabile ostinazione, vorrei farlo con te.
Carmine Mangone + Donatella Vitiello, dicembre 2011. L’illustrazione del post è un’opera di Ignatius Widiapradja (“Entanglement”).
“Il vuoto che mi divora quando mi pongo di fronte all’amore”
è la perfezione dell’amore.
Il vuoto non come assenza, ma come presenza che va oltre noi, che sovrasta. Il corpo non ce la fa a sostenere le parole, deve abbandonarsi in balìa del proprio ampliarsi, gonfiarsi. Scrivere diventa atto costrittivo.
Non so. In questa fase della mia vita, ad essere sincero, vedo la scrittura più come una sorta di convoglio cui resto aggregato più o meno consapevolmente. A dirla tutta, non sono neanche tanto sicuro della destinazione finale. In altre parole, e usando una metafora marinara, ammetto candidamente di non essere certo dell’altezza cui può situarsi la linea di galleggiamento del “battello ebbro”. Semmai, partendo da istanze indubbiamente virili, m’interessa molto di più il possibile divenire-donna della mia scrittura, ossia lo sconfinamento, dentro la mia stessa opera, di elementi che attengono l’irriducibilità dell’Altro rispetto alla mia presenza. E l’Altro, per me, è essenzialmente il “femminile”.
E’ un non riuscire a contenersi l’un l’altra tra te e la scrittura. Uscire fuori e andare verso l’altro, nel tuo caso, si identifica con un percorso verso il femminile ed è una risorsa magnifica.
La scrittura è sempre un’escrescenza. Una sorta di seconda pelle; di pelliccia mimetica per il sottobosco. Non ci si contiene, ma si viene contenuti. Il che è lapalissiano, direi. Cacciamo il senso, in quel sottobosco, come predatori spesso autocompiaciuti. La scrittura diventa parte del nostro apparato digerente. E non solo a livello simbolico.
” La scrittura diventa parte del nostro apparato digerente.”
oltre che parte di quello respiratorio e circolatorio…
cacchio che bel blog che ho trovato stamattina!
viva!
Grazie mille! Lieto che i contenuti possano interessare sempre più singolarità sparse per l’italico suolo. Cercherò di migliorare costantemente la mia proposta. E ci sono già in ballo un po’ di soprese entro il 2012. 😉
aspettiamo con ansia…