Alcuni frammenti del mio La qualità dell’ingovernabile.
Frammenti che creano, o cercano di creare, un movimento d’apertura a partire dalla mia idea di “anarchia”; idea che si riallaccia, nella vita quotidiana, alla ricerca di una qualità della e nella comunanza che mi va legando al mondo degli altri, nonché ad una pratica “combattente” dell’amore.
Sono accenni, aperture di gioco, sconfinamenti. – Dove uno Spinoza puerile e imbronciato incontra il bombarolo anarchico Emile Henry o dove il poeta boxeur Arthur Cravan bacia in bocca un Max Stirner finalmente stufo del suo rozzo nominalismo.
L’illustrazione è di Marco Castagnetto.
(…) Non darsi un governo, né tanto meno imporlo, significa creare e sviluppare, in consapevole autonomia, benché all’interno di una comunità d’intenti e d’affetti, i rapporti col mondo che si ritengono proprî; significa muoversi, radicarsi nel movimento dell’autonomia, nella qualità vettoriale delle relazioni. L’assenza di governo – ἀν-ἀρχή – è l’amore per il movimento, per la potenza che non s’irrigidisce in idee fisse e che muove dai margini di indefinizione dell’amore per dirigersi verso il mondo, senza per questo dover legittimare l’ordine o l’arbitrio di una direzione.
L’anarchia non è una causa. L’anarchia è un’etica nomade, un’idea della singolarità irriducibile che attraversa le moltitudini, la cui pratica – attraverso atti di vita infondati, che cioè non si localizzano dentro la norma di un luogo o di un popolo determinato – impedisce ai poteri costituiti di asservire una volta per tutte la potenza del vivente. (…)
Il potere è una produzione peculiare degli umani. Nessun altro animale (salvo certe specie d’insetti) presenta un livello di aggressività intraspecifica paragonabile a quello che si riscontra tra gli uomini. Nessun mammifero ha dovuto costruire organismi sovraindividuali per tutelare la propria comunità (il proprio branco) dagli attacchi di alcuni degli stessi membri che la compongono.
Nel difendersi dalla “natura” che lo minacciava, l’uomo ha finito per ridimensionare drasticamente gli elementi naturali che riteneva di aver individuato dentro di sé [non è forse questa la civiltà?] e per attaccare la “natura estranea” riscontrata in altri uomini.
Si è quindi dovuta rendere più sicura la convivenza fra le diverse comunità umane e all’interno di esse accentrando la gestione, il controllo e l’impiego della violenza nelle mani di pochi uomini, secondo modalità normative condivise dal corpo decisionale della comunità (più o meno ristretto a seconda delle epoche), e tutto questo in un determinato recinto religioso, politico, culturale. (…)
Di contro, L’ANARCHIA È LA POTENZA CHE NON ASSUME FORMA – movimento della negazione che delegittima la padronanza dei limiti senza limitarsi a padroneggiare la negazione.
Amore furente, creazione finanche per mezzo della distruzione: l’esistenza dell’anarchia testimonia l’impossibilità reale del potere e l’impossibilità stessa di stabilire la potenza dentro un’idea. Ogni anarchismo politico ha perso e perde in partenza, non tanto contro il potere, bensì contro il movimento stesso dell’anarchia, che non ha bisogno di vincere per affermarsi. Nessun potere vincerà l’anarchia. Nessuna struttura anarchica sopravvivrà al proprio movimento. (…)
Non esiste vera dialettica tra potenza e potere; non può esserci pace duratura tra il movimento dei viventi e le strutture che cercano di regolamentarli, di tenerli all’interno di un recinto.
Anche quando l’anarchia viene banalmente evocata nelle sue accezioni gergali (come sinonimo di “caos”, “confusione” e simili), ciò vuol dire che c’è qualcosa che rimane fuori dal discorso e contro ogni cittadinanza; qualcosa che non è semplicemente “straniero”, ma addirittura irriducibile a qualsiasi inclusione e nettamente estraneo ad ogni struttura che cerchi di forzare il mondo in un dominio.
Al possesso di un luogo, sia esso utopia o “luogo comune”, l’anarchia predilige il possesso del movimento, del transito attraverso ogni luogo.
Gli attraversamenti riguardano sia il pensiero del mondo, sia la dimensione più propriamente sensibile, “operativa”. L’anarchia è un dáimōn, una forza che rende carnale l’etica e nomade l’intelligenza, agganciandole entrambe alla comunità volontaria di quanti si riconoscono e si vogliono reciprocamente unici. (…)
Le idee, e lo sviluppo delle loro definizioni, devono servire ad annientare ogni servitù del pensiero.
La critica – ossia la teoria del movimento che individua la radicalità delle relazioni tra l’uomo e il suo mondo di pensieri – in quanto negazione della miseria economica e poetica della società umana – sarà il fondamento teorico della gioia o non sarà. (…)
Costruire unioni per condividere progetti. Creare affinità e affinare la propria creatività insieme agli altri. Soddisfare i propri bisogni senza uccidere i desideri degli altri. Toccarsi reciprocamente senza la necessità di contarsi. Osteggiare chi fa economia dell’amore. Godere della propria vita sventando l’individualismo indotto dalla società post-industriale. Creare federazioni tra le comunità amorose e combattenti per tagliare traguardi che il proprio gruppo, da solo, non riuscirebbe a raggiungere. (…)
Il mondo non è a senso unico, il mondo chiama semmai all’unicità del senso. E cos’è il senso, se non il desiderio di un’unità del mondo esperibile almeno per pochi istanti? L’attimo non è un parente povero dell’eternità, l’attimo è la furia della materia vivente che squarcia la frammentarietà delle vite per generalizzarne la lotta vitale contro ogni frammentazione.
Quando io parlo di UNICITÀ, intendo la singolarità delle forze coerenti che danno forma e sostanza al mio mondo di pensieri e alle mie relazioni col mondo. Non dico banalmente: io sono unico. – La mia unicità non è un bunker, non è un principio di fede, non è “una volta per tutte”. Dico invece: io vivo la mia unicità, mi metto al mondo attraverso di essa, la incorporo e scorporo in me senza posa (anche grazie agli affetti che ho scelto) e ne faccio un ponte verso le forme di vita diversamente uniche che mi circondano.
Possedere il movimento della propria unicità – ecco l’essenziale – perché l’unicità non è un concetto o una zavorra narcisistica per novelli Sisifo, bensì un flusso, un concatenamento di facoltà, una scintilla che corre incontro al suo incendio riverberando mille fuochi. (…)
Carmine Mangone, La qualità dell’ingovernabile, Gwynplaine, 2011.
Rileggerò. Con calma: questo libro pur piccolo potrebbe risultare ostico.
Perché? Concetti, parole e senso sono intrisi della materia stessa di cui l’autore è fatto, del suo modo di guardare ‘a valle’.
Urticante e incomprensibile, egli scrive per pochi e lo si capisce benissimo quando non sei tra quei pochi, ma è il rischio che si corre sempre con i ‘contemporanei’ , quello di poter imparare molto e capire altrettanto.
Rileggerò prima l’appendice ‘Fuoco sui ragazzi del coro’: sogno ad occhi aperti, vissuto nella Storia, sangue e poesia.
1936. Spagna. 59380 volontari da 50 Paesi per combattere contro il fascismo. 9934. 7686 feriti gravi. Leggo e riporto numeri, ma la guerra civile se non ricordo male fece un milione di vittime.
‘La guerra degli scrittori’, anche, perché ci fu chi combattè tra loro e chi ne scrisse solo tracorrendo lunghi periodi nel Paese.
Garcia Lorca fu sacrificato (e molti altri , confidando come fece ‘nell’amicizia e nella poesia’. Hemingway ed Eluard ne scrissero, (mi annoto ‘I girasoli ciechi’ di Alberto Méndez, forse gli stessi in copertina?), Picasso ne dipinse.
Tutti loro videro ‘qualcosa’ in quel momento, qualcosa di forte, di sublime e tremendo al tempo stesso: la stessa cosa che l’autore ha visto, la ‘scintilla’ e poi il ‘fuoco’, battaglia e disfatta assieme, fiamme e ceneri.
Bello sarebbe approfondire.
Per ora sfioro il desiderio e il molto amore di questo autore, cercatelo nel suo blog fitto di immagini e scritti, () facendo in modo che la curiosità mai muoia, soprattutto quella per la Storia.
() https://carminemangone.com/
https://www.goodreads.com/book/show/38475746-la-qualit-dell-ingovernabie