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Si è soli con se stessi, si soffre, si muore soli, ripetono senza posa gli incompiuti o gli esausti, quasi a voler costruire una verità inespiabile intorno a quest’assunto. In realtà, cercano di coprire, soprattutto a se stessi, una flagrante inettitudine nell’affrontare il proprio isolamento.

Si è soli, imbozzolati fisiologicamente in un corpo, ciò è lapalissiano, ma sempre in un rapporto vettoriale con ciò che si ama o si odia.
Molti confondono il perimetro corporeo del singolo con l’isolamento che è socialmente determinato e non comprendono la trama ineludibile dei campi di forze che agiscono intorno ai corpi fisici o tra di essi.
Eppure, ciò che si chiama «vita», ossia l’insieme delle relazioni tra un qualsiasi vivente e il suo mondo di riferimento, è molto più semplice di quanto si voglia ormai pensare. Urge una potatura al livello del pensiero. La critica deve poter respirare tra me e te. Bisogna far luce senza spegnere il fuoco. La semplicità non è facile, rimane cosa ardua – ma esiste forse, nelle relazioni tra i viventi, una bellezza che sia facile?
Devo ammetterlo. Ho una lama pronta ad affondare nel corpo del mondo a partire da ogni pensiero del conflitto, come pure un sorriso e una mano tesa in ogni parola amorosa. Critica e amore, in me, si tengono ironicamente a braccetto. – Avendo rovesciato l’albero della conoscenza, le radici son tutte per aria, ed il cielo, senza più dèi a sorreggerlo, mi è caduto giusto fra le braccia.

Quel tuo segno di carne nella bocca dello spirito. Quei capelli d’invasione che ti mettono al mondo ad ogni folata. Quella storia della tua bellezza, raccontata così male dalle mie parole.


16 aprile 2012. Il disegno è della piccola Sara, 7 anni. Frammento confluito in Quest’amante che si chiama verità (Gwynplaine, 2014).