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Note insensate. Risalenti al 2005. Potrebbero comporre una presa di posizione (una fazione?) per la mia voltura in italiano di alcuni frammenti dei Cahiers de Rodez. Erano già state pubblicate non ricordo dove. E oggi avrebbero senz’altro bisogno di qualche integrazione (ad esempio: si può davvero parlar di “fallimento” nel caso di Artaud?), ma non ho agio e voglia a riprendere il buon Antonin, per cui beneficiatene così, almeno per il momento. Proficua lettura a voi.


1

Quanto c’è di spudorato nel voler fare a meno della letteratura pur continuando a scrivere? Perché gli spiriti più sensibili al destino dell’uomo hanno cercato quasi tutti di oltrepassare la dimensione prosaica della parola senza riuscirvi? Cosa li ha costretti, cosa li ha ridotti alla propria coazione verbosa? E perché, una volta spintisi ai confini dell’espressione umana, non hanno più ritrovato se stessi se non in un deserto?

L’oltrepassamento della letteratura e dell’arte è impossibile quando lo si cerca o lo si manifesta banalmente solo attraverso la scrittura e la figurazione, siano esse svincolate o meno dalle forme convenzionali statuite.
Se solo prevaricassimo sulle parole, soverchiandole, trascinandole con noi lungo la strada della vita – per poi lasciarle d’un tratto al bivio con la morte (dato che in fondo già contengono e significano un po’ della nostra morte) –, forse questo ci consentirebbe di sviarle di senso riconducendoci a casa, attraverso il mondo e le diverse comunanze, e finalmente al cospetto di tutto il rigore possibile della nostra mutevole singolarità.
Ma come farlo?

Mentre uno come Rimbaud ha dovuto fuggirsi in Africa, nel tentativo estremo e patetico di ritrovarsi borghesemente, Antonin Artaud ha finito invece per costruire la propria personale Harar dentro di sé – e nel suo stesso corpo, spurgandolo con veemenza quasi rituale, ha cercato d’agire non solo simbolicamente per svuotare il corpo pensante dell’occidente civilizzato.
Il superamento della letteratura come disintegrazione del discorso prosaico e teatrale, e la sua successiva, arbitraria ricomposizione attraverso le glossolalie, fa da complemento in Artaud allo svelarsi delle contraddizioni culturali e sociali legate alla norma dell’individualizzazione psicobiologica (“Io, Io e ancora Io”) statuita dalle scienze borghesi.

Dal corpo senza organi, e quindi senza più centro, al corpo asessuato, perché ormai con ogni sesso possibile.

2

Dov’è finito Artaud? In quali luoghi comuni si sono impigliate le sue parole?
In un mondo dove quasi tutto è rappresentazione, ossia evocazione della presenza, le forme teatrali non hanno più senso. La poesia, dal canto suo, non è mai riuscita ad appropriarsi del mondo per rigenerarlo. La pittura si è persa nei musei. E la creatività umana annaspa puntualmente sui banchi del mercato. Oramai, solo con una pistola si possono fare dei capolavori (e non certo sforacchiando una tela!).
Ma forse aveva ragione il vecchio Cioran. Agire non ha senso, non più. Molto meglio inghiottire la lingua, che parlare agl’imbecilli istruiti!
Dov’è finito, insomma, il nostro caro Antonin?… Non temiate che alla fine lo abbiano normalizzato, magari attraverso la sua stessa follia. Se un Artaud teorico del teatro esiste davvero, lo è solo quello uscito MAGICAMENTE indenne dal manicomio della surrealtà capitalista. In ogni modo, la sua concezione del teatro non è certo la stessa rappresentata dalle nostre stanche avanguardie. Tutti questi idioti biliosi farebbero meglio a piazzare un athanor nei loro pisciatoi, ingegnandosi a trasmutare in piombo i propri ninnoli placcati d’oro, anziché continuare nella rappresentazione delle loro insulse apocalissi dopo che è stato svenduto dal capitale finanche l’inferno.
Se la CRUDELTÀ viene rappresentata, la morte vince. Solo riportandola per le strade come un’epidemia di peste, solo allora può ancora generare dei rigurgiti di vita.

3

Perché mai interessarsi alla teatralità del vivente, quando la crudeltà del corporeo travalica qualsiasi rappresentazione?
La crudeltà delle polluzioni notturne, o dei mitocondri che invecchiano. Ostracismo dello spirito. Frammenti di coccio sull’altare della cultura. (La storia morirà con me. Tutto il resto è solo Idea).
L’avvenire rimanda alla linea da seguire: ciò che ha da venire, e che mi fa andare di sbieco ogni giorno… Rinviarsi a data da destinare. Ciò che ha da venire… il grappolo di pensieri che mi va morendo, la disciplina che s’impone coi fluidi vitali, la stanza segreta del mio corpo… Lasciatemi venire. Lasciatemi avvenire sui vostri corpi. Prima della morte, disordino il mio sangue. Inattualità del corpo nei troppi segni. C’è un posto vuoto, c’è sempre un posto vuoto nel teatrino del mio Io. Vacanza dell’ignoto, dell’irreparabile. Il mondo non è stato fatto per significare l’uomo. Narciso s’innamora dello specchio che ne incarcera l’immagine, e i limiti della rappresentazione conducono all’istituzione totale della virtualità.

4

Fuori della scena. Gregor Samsa è diventato l’ombra di Cartesio. L’osceno. L’ombra della morte che ragiona. Senza fare scene. O di ciò che muore in ragione dell’ombra.
Ogni testo è come un cerchio di pietre, all’interno del quale veniamo affatturati dalla nostra stessa volontà di parola. E questo cerchio si va stringendo sempre di più. Resteremo forse senza parole al cospetto del mondo? Lo dubito. Ma anche se così fosse, ci sarebbe sempre modo di specializzarsi nel grido.

5

Siate gentili. Concedete al poeta un volontario gioco di parole. Non c’è più verso di scrivere innocentemente.
Bisogna procedere per tentativi. Annaspare, se occorre. Perché la verità è morta. I cadaveri intasano le bocche della dialettica. E la guerra dei princìpi non è mai finita.
(Un giorno, mi sono imbattuto in una foto dell’ultimo Artaud – quello reduce dai nove anni d’internamento manicomiale, per intenderci – che è davvero emblematica. In questa foto, lo si vede di spalle, infagottato in un vecchio cappotto mentre se ne sta seduto su una panchina a Ivry, tutto preso dal puntarsi alla schiena quella che sembra una matita, quasi come se stesse saggiando in quel punto del suo corpo un campo di forze da cui innescare una sorta di esorcismo en plein air; lì, proprio lì, ad una fermata dell’autobus, sotto un sole pallido che non poteva già più riscaldarlo).
Perché la verità è morta, e a noi tocca difenderci dal freddo degli altri, acuminare il pensiero, conficcarcelo nella carne viva…
Immagini di guerra. Bambini che rovistano fra gli scarti del pensiero, nell’immondizia dell’umanesimo… L’ordine fulminante non si è abbattuto sui mercanti, non ancora. (Bombe. L’altrove di una demenza. Luoghi comuni come lager). L’ordine fulminante non è venuto a squarciare i templi della democrazia. (Ed allora sono libri insulsi, mine antiuomo…). La certezza, ormai, di capitolare con ogni parola. Nessun aiuto dall’alchimia del verbo…
Artaud si punta un lapis alla schiena morendo ai piedi del letto – ed è la realtà di una presenza che si frange fatalmente contro l’ottusità della materia.

6

Gl’imbecilli istruiti accatastano parole in stupidi cimenti. Rimasticano infiniti e trapassati remoti pur di fronte all’inanità del verbo. Attoniti, dosano la sintassi, in morte delle proprie ghiandole.
Bla bla bla. Il rumore di fondo dell’ignominia. La mancanza di figure che si staglino contro il grigio dell’esistenza. Uno stillicidio di parole, il flusso logorroico delle immagini, l’urgenza di un ripensamento grave e decisivo di tutto (che si fa per altro sempre più difficile).
Esortazioni. Ci vogliono esortazioni, non preghiere. Bagliori, squarci di bellezza sovrana, e non litanie insulse.
Artaud è stato appeso all’albero di natale dei teatranti. Le sue sconfitte sono diventate il loro alibi, il paravento dietro il quale nascondere la miseria di una realtà ridotta a mera rappresentazione. Cosa non farebbero gli idioti, per possedersi comodamente in effigie senz’arrischiarsi a vivere!…
Esortazioni, dunque. Ci vogliono esortazioni. Veri e propri incitamenti alla vertigine del rigore. Starsene accampati nel proprio Io è male. Bisogna aprirsi, scansare i rovi del pensiero, correre, gridare d’un grido più lucido della morte. Vergato da ombre irrisolte, il nostro essere si risolverebbe in pietra, se non prestassimo il sangue alla poesia feroce che c’infervora dentro. Solo divergendo dalla strada maestra, si può avere la ventura d’incontrare finalmente se stessi. Occorre liberarsi di tutta la follia accumulata originariamente dalla società; diluire la parte maledetta dell’esistenza e dell’inconoscibile umano nel proprio sangue; mitridatizzare il corpo, la memoria; ripartire superbi là dove ha fallito Artaud.

7

Violenza per violenza. Bisogna assurgere imperiosi al centro della propria vita. Scatenare l’irrazionalità della macchina carnale contro il potere che costringe la singolarità dell’individuo nel purgatorio urbano. Senza tregua. Costruire e disfare comunanze.
Se si rigettasse per partito preso la violenza liberatoria, il moto con cui si afferma sovranamente la singolarità che crea comunanza, ci si ritroverebbe invariabilmente in pieno cristianesimo.
Quando dico violenza, intendo dire concordanza assoluta con se stessi attraverso l’esperienza e l’autogestione del conflitto che si ha col mondo.
La violenza di chi eccede la normalità delle cose per dare un senso (una piega) alla propria esperienza di vita, è da preferire mille volte all’inerzia di tutti coloro che vengono meno all’esercizio della propria dignità. La violenza come atto d’apostasia dei riti di massa, come pensiero tellurico che scaraventa ciò che resta dell’umanesimo nella pozzanghera dello spirito…
Crudeltà del poeta. Forzare il tutto in un frammento. Ammettere la sovranità del dettaglio. Burlarsi impunemente di chi nutre la malriposta speranza di fissare una volta per tutte lo stato di consistenza dello spirito.

Carmine Mangone, 2005



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