Mi vado ricongiungendo con l’essenziale, molto lentamente, senz’alcuna fretta, come se la vita non dovesse mai finire, facendo di alcuni attimi un ponte, una passerella gettata su quello splendido abisso fiorito che è la continuità tra tutti gli eventi fondamentali dell’universo. Intensità, compassioni. Picchi che allacciano la potenza del vivente senza contenerla. Nella nostra presenza, nel candore di un diuturno ricominciamento.
La notte scorsa ho sognato i miei nonni paterni. Le mie radici contadine, i miei rami più teneri e scomposti. Erano nel loro casale di L. C., intenti a fare la solita pennichella pomeridiana. Arrivo portandomi dietro una rottura dell’immobilità estiva. Mi sorridono. Mi chiedono se resto. Mia nonna si alza a prepararmi qualcosa che non ricordo.
Sentirsi a casa nel risveglio. Sollevare i veli del giorno e sorridere. Scarcerare gli occhi. Lasciare che le lacrime (assenti da anni) possano ripopolare il giardino incolto della tenerezza.
Nessuno muore davvero, se giunge a coprire i vuoti che non riusciremmo mai a contenere da soli nella nostra lotta contro il definitivo.
27 giugno 2012. Frammento confluito in Quest’amante che si chiama verità (Gwynplaine, 2014).
L’ha ribloggato su natalia castaldi [esilio e desnacimiento].
Il ricongiungimento alle proprie origini è parte della costruzione di sé, è l’eredità d’amore, non solo genetica, che ci compone. “Scarcerare gli occhi” è una frase poetica felicissima che mi ha fatto venire in mente il perdono, quello che poco tributiamo a noi stessi.
Mirella C.
Confesso di non essere mai stato troppo legato alle mie origini “anagrafiche” e di aver dato, a partire dalla mia tarda adolescenza, scarso peso ai legami di sangue. Ritengo peraltro che il sogno riguardasse più propriamente il mio attuale desiderio di una continuità, di una aderenza critica a quello che può essere considerato il phylum umano, e che solo incidentalmente possa concernere la mia famiglia o la mia biografia. La dinamica onirica che ho cercato di sintetizzare (essa stessa di già sintesi) riguarda semmai questo desiderio di accoglienza e rilancio di una umanità che vuole avere i suoi ritmi, le sue indolenze, il suo amor proprio. Le lacrime sono poi uno sbocco, un’acqua che cerca la sua foce. Foce che è già qui, tra le mie mani, nei miei pensieri, e che è parte di ciò che va a comporre l’orogenesi della mia vita.
La tenerezza è anche la ricerca di un proprio battito, di una propria aderenza carezzevole, in consonanza naturalmente con i ritmi degli altri, con il voler vivere degli altri. Almeno per me, beninteso.
in effetti, anche se dal mio intervento non si evince altrettanto bene, volevo riferirmi a quella sorta di “continuità” come hai ben scritto, che in qualche modo ci riguarda come esseri umani e che non coincide sempre col patrimonio genetico ereditato, non solo, perlomeno, ma che è progetto, costruzione del proprio divenire esseri umani completi, con tutto quello che significa per ciascuno di noi.
A rileggerti.
Trovo che il concetto di continuità sia molto interessante, soprattutto se inteso in una sorta di compresenza dinamica e critica di tutti i possibili, di tutte le relazioni con l’esistente (siano esse già operanti o progettabili).
Vi si potrebbe fondare una nuova prassi, tendente gioiosamente alla totalità; prassi eminentemente materialista e che spazzerebbe via buona parte dei problemi legati alla gestione delle transizioni. Il voler vivere si pone nel già qui, evidenza quasi assoluta.
Ciao Mirella. Un caro saluto.