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L’amore, prescrive il cinismo dei proverbi, è una lotta. Di questa saggezza miserabile si inorgoglisce il sorriso dei vili: a che vale, muoversi alla ricerca dell’estasi, quando sai che non potrai trovare se non il corpo del niente, che il desiderio della fusione e della sortita dalla prigionia si conoscerà, stravolto, come un corpo a corpo di fantasmi? Se è anche vero che l’amore è una lotta, è più vero che la lotta è di ciascuno contro la propria miseria e contro la propria prigionia. Non si lotta contro l’altro, si lotta contro il sé. Nessun manuale di strategia amorosa vede la moralità di questa lotta. È più osceno il presunto realismo delle “astuzie” d’amore che le eiaculazioni sul viso della pornografia. Bataille scrive, temerariamente: “L’essere amato è, per chi lo fa oggetto d’amore, la trasparenza del mondo. Ciò che attraverso l’essere amato appare (…) è l’essere pieno, illimitato, cui l’individualità non oppone più barriere”. L’essere amato è la trasparenza del mondo finché non si riduce ad apparire come l’oggetto d’amore, e non appena appare come l’oggetto d’amore ogni trasparenza dilegua, l’opacità spezza lo sguardo, la specularità lo fa regredire al passato. Guarda l’essere che ami nel cuore di un paese: vedrai, se l’amore è forte, quanto è grande il paese del tuo cuore, e come esso è un regno, e come la tua e quella dell’essere amato volga ad essere la signoria senza schiavitù. Ma guarda ancora l’immagine della persona che ami al centro di un paesaggio: vedi la serva-padrona che fu tua madre e il forzato-sbirro che fu tuo padre, al centro focale del tuo passato, proiettato come un incubo onnivoro e ossessivo, sopra ogni presente, contro ogni futuro. Fai del progetto amoroso un oggetto d’amore e vedrai il tuo passato come la barriera specchiante che ti separa dal presente.
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Gli amanti corrono per mano verso un’acqua lustrale, esattamente come negli shorts pubblicitari verso un sale da bagno o una cocacola. Gli amanti si accaniscono a spillarsi l’uscita da sé, esattamente come nei coiti della pornografia. Ma nessun mercenario della regia riuscirà mai a profanare la sacralità di quella corsa, la solennità di quella lotta, per quanto si incanaglisca a dilapidarne le immagini, ad affogarle nel gorgo della mercede che lo strangola, fecale. In questo ogni immagine conserva una sua innocenza: nel potere resistente dell’evocazione, e al tempo stesso, nell’evanescenza manifesta della sua natura di simulacro.
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Il capitale ha creduto di liquidare facilmente la resistenza millenaria dei contenuti radicali manifesti nella sacralità delle situazioni topiche. Non ha potuto che saccheggiarne l’iconografia. Sorprendentemente, neppure questo gli è riuscito senza danno. Schiacciata sotto i rulli delle macchine da stampa, l’immagine dell’uomo futuro, racchiusa nella corporeità di ogni essere, è sempre capace di resuscitarsi. In un brivido, per un istante, come per equivoco, in un colpo d’occhio distratto, a tradimento, tra una trivialità e uno sbadiglio, tra l’una e l’altra parola del vuoto, un occhio improvvisamente ti fissa, un seno respira, una mano pulsa, un ventre trasale. Un secondo sguardo non troverà che la patina della carta, la lattescenza dello schermo; uno slogan si precipiterà a suturare la fêlure minima aperta nella corteccia del cinismo d’obbligo. Non è accaduto niente, e il lutto si rassicura: sei morto come sempre, in uno sterminato campionario di illustrazioni ferali. Ma non è mai vero del tutto, e lo è sempre meno. È tempo di invertire la prospettiva, di saper vedere l’estrema fragilità della catalessi imposta dal capitale. È tempo di capire che l’ineroe nihilista, questo egotista dell’autodistruzione e dell’annientamento, ha i nervi a pezzi, e che persiste con crescente difficoltà. Nessun ottimismo è lecito sulla facilità dell’impresa, ma è tempo di non lasciare accidiosamente ingrassarsi il verme del pessimismo.
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Il corpo è forte. La sua caparbietà, il resuscitare inesausto della fame, non è qui una dialettica? La scherma magistrale del desiderio ne è una lezione. La sacralità del piacere: la promessa. Nessuno, si dice, è capace di ricordare la sensazione dell’orgasmo. Là dove si verifica la fusione istantanea di corpo e mente, la memoria brucia come una valvola. La memoria è il terminale dell’apparato che disgiunge il corporeo dal mentale. La sensazione dalla riflessione. È il custode vigilante del non-essere coatto. La memoria è la funzione del dimenticare, non del ricordare. Ogni censura, ogni rimozione, ogni rimozione della censura, è opera della memoria. Ogni oblio del proprio senso. La memoria è il sigillo di garanzia del memento mori. Il sacro, questo apparire disparendo. Apparire dell’essere nella sostanza, disparire nella forma che la memoria cristallizza, per celarlo. Per farlo morto. Il senso vivo nascosto dalla forma che il senso morto immobilizza per occultarlo. Tutto questo “sesso” nel dominio apocalittico del capitale. Tutte queste forme denudate di cazzi e fiche. Come sognare, ancora, freudianamente, spade, scrigni? Rupi, polle? In tutto questo filo spinato di peli pubici. Sperma glacé, glandi tostati, ostii brasati, alla mensa ufficiali dei cresimati. Questo il mio corpo, questo il mio sangue: Vostro Padre Capitale.
Cfr. Giorgio Cesarano, Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari 1974, pp. 174-175, 179-180, 183-184.