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Finché sulla Terra resteranno almeno due uomini, e che sanno l’uno dell’altro, nessuno mai potrà avere l’ultima parola.
Solo un eventuale ultimo uomo avrà in dote il punto finale. Ma per farsene niente.
Uno dei paradossi della condizione umana è che noi abbiamo la possibilità di dire la fine dei tempi solo fintanto che abbiamo tempo.
Da qui nasce anche la possibilità e l’impossibilità della letteratura: il suo rilanciare senza posa il racconto del mondo, così come il suo ammettere, più o meno nascostamente, la propria incapacità a fissare una volta per tutte  il movimento dell’essenziale.
Chiamare “termine” un vocabolo, può essere a volte un buffo controsenso.
 
Qualche anno fa mi capitò di scrivere per puro divertimento, nell’arco di un paio di pomeriggi,  diverse cartelle di aforismi balordamente surrealisti.
Ora, la settimana scorsa, il brogliaccio con queste facezie è rispuntato fuori da una vecchia cartella di scritture “stracce”, e trovandomi così a rileggere il tutto, sono incappato in una sorta di ingiunzione (che avevo dimenticato) talmente balzana da farmi ridere sonoramente: Inculate i Serafini!
Di certo, non so spiegare mediante raziocinio il perché di tale frase e della sua perentorietà, ma, a rileggerla, una cosa mi si è subito palesata in una maniera, come dire?, assolutamente rischiosa: la possibilità che questa “prescrizione” – quest’auspicio? – diventasse dentro la mia testa come un mantra, uno slogan irriverente e gioioso, una parentesi allegra e disturbante nella banale condiscendenza della ragione discorsiva e dei suoi funzionalismi quotidiani.
In altre parole, che forse sono parole “altre” solo per me, il ripetermi in testa questa triviale ingiunzione ai danni delle figure angelicate è (in questi giorni) soprattutto un modo per mandare affanculo l’apparente bonomia e la reale insignificanza di gran parte delle parole circolanti.
In tal senso, il mio Inculate i Serafini! potrebbe avere numerose e più circostanziate varianti, come ad es.: Irrumate i poeti!, Impalate gli esorcisti!, o cose del genere, a seconda ovviamente del contesto e della prassi che s’impone.
 
L’ironia è il disagio della parola; di una parola che gira su di sé come un animale impazzito.
 
Quando vi staccheranno la spina, non avrete più neanche uno straccio di parola comune per pregarli in ginocchio. I padroni dell’evento non vi faranno più accadere.

Primo pomeriggio del 17 settembre 2012