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maggio 1968, Maurice Blanchot, movimento, negazione, rifiuto, rivoluzione, rottura, scritti politici
1. Lo scopo ultimo, ossia immediato, evidente, come pure nascosto, diretto-indiretto, è: affermare la rottura. Affermarla: organizzarla rendendola sempre più reale e radicale.
Quale rottura? La rottura col potere, dunque con la nozione di potere, dunque laddove predomini un potere. Ciò vale certo per l’Università, per l’idea di sapere, per il rapporto di parola docente, dirigente e forse per ogni parola, ecc., ma ciò vale ancor più per la nostra stessa concezione di opposizione al potere, ogni volta che questa opposizione si costituisce in partito di potere.
2. Affermare radicalmente la rottura: ciò vuol dire (in senso proprio) che noi siamo in guerra con ciò che è, ovunque, sempre, non avendo noi rapporti con una legge che non riconosciamo, con una società i cui valori, verità, ideale, privilegi ci sono estranei, non avendo dunque nulla a che fare con un nemico tanto più temibile quanto più sembra compiacente, con il quale deve essere chiaro che, in alcuna forma, neanche per ragioni tattiche, scenderemo mai a patti.
3. Portare la rottura, non solo significa liberare o tentare di liberare dalla loro integrazione alla società stabilita le forze che tendono alla rottura, è fare in modo che realmente e ogni volta che si compie, senza cessare di essere rifiuto attivo, il rifiuto non sia un momento soltanto negativo. Sta in questo, politicamente e filosoficamente, uno dei tratti più forti del movimento. In tal senso, il rifiuto radicale che esso porta, e che anche noi dobbiamo portare, supera di gran lunga la semplice negatività, se è negazione anche di ciò che ancora non è stato posto e affermato. Mettere in chiaro l’aspetto singolare di questo rifiuto, è uno dei compiti teorici del nuovo pensiero politico. La teoria non consiste evidentemente nell’elaborare un programma, una piattaforma, ma al contrario, fuori da ogni progetto programmatico e anche da ogni progetto, nel mantenere un rifiuto che afferma, nel liberare o mantenere un’affermazione che non si accorda, ma che discorda e si fa discorde, essendo in rapporto con il disaccordo o il disordine o ancora con il non-strutturabile. È la decisione del rifiuto, che non è un potere, né potere di negare, né negazione in rapporto con un’affermazione sempre già posta o progettata a priori, è questa decisione ad essere nominata, allorché nel processo “rivoluzionario” si fa intervenire la spontaneità, con la riserva che la nozione di spontaneità, sotto molti aspetti, è soggetta a cauzione, e veicola più di un’idea dubbia – per esempio, una sorta di vitalismo, di auto-creatività naturale, ecc.
– Affirmer la rupture, testo apparso anonimo sul bollettino del Comitato d’azione studenti-scrittori della Sorbona occupata nel ’68 («Comité», n. 1, ottobre 1968). Ora in: M. Blanchot, Écrits politiques, Lignes/Éditions Léo Scheer, Paris 2003, pp. 104-106. Traduzione di Carmine Mangone.
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Uhm! e dopo l’ecc?! 🙂
Dopo l’eccetera, dopo ogni eccetera, mi sa che tocca a noi dare una continuità alla rottura e una densità alla presenza. L’eccetera è sempre un’ampia eventualità.
Cosa curiosa: alcuni mesi fa terminai il mio Quest’amante che si chiama verità proprio lasciando il discorso finale come a mezz’aria e facendone così una sorta di passerella costituita da corpi simbolici legati da un eccetera – dove, beninteso, ciò che io chiamo “simbolico” costituisce sempre un picco di senso nel generale movimento di deframmentazione dei viventi.
Uhm! ….. Deframmentazione dei viventi…