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Andamane, antropologia, etnologia, Nicobare, popoli nativi, radicalità, Sentinelesi, tsunami 2004, unicità
Di seguito, un testo incluso nel mio L’ingovernabile, nonché sul n. 10/2011 di XXmila leghe sotto, la rivista/catalogo di Nautilus autoproduzioni. Buona lettura.
Negli arcipelaghi delle isole Andamane e Nicobare, oggi ad amministrazione indiana, sopravvivono alcune delle ultime tribù con origini ed usi paleolitici ancora non estintesi a contatto con la civiltà: gli Jarawa, gli Onge, gli Shompèn, i Grandi Andamanesi e i Sentinelesi.
Questi ultimi, in particolare, sono pressoché isolati, quasi per niente conosciuti (non si sa neanche quanti siano) e molto decisi a difendere il loro territorio e la loro integrità anche facendo uso della forza contro gli eventuali intrusi.
Tutte queste tribù, ancora oggi formate da raccoglitori e cacciatori nomadi della foresta, che integrano la propria dieta col pesce pescato con arco e frecce sulla costa, si sono salvate dal catastrofico maremoto dell’Oceano Indiano, nel dicembre del 2004, perché messe in allarme dal comportamento degli animali e da un movimento anomalo delle maree, affidandosi quindi provvidenzialmente a una millenaria conoscenza dei fenomeni naturali.
Al contrario, la popolazione dei Nicobaresi, unica tribù dei due arcipelaghi ad essersi sedentarizzata e cristianizzata, ha subito migliaia di perdite e ha visto molti dei propri villaggi costieri spazzati via dallo tsunami.
A qualche giorno di distanza dal cataclisma, quand’ancora restavano incerte le sorti dei nativi insulari, un elicottero della guardia costiera indiana, in ricognizione a bassa quota sull’isola di North Sentinel, abitata unicamente dai Sentinelesi, viene preso di mira con frecce e lance da parte degli indigeni.
Ciò dimostrava che i Sentinelesi, non solo erano scampati allo tsunami, ma continuavano come prima a non volerne sapere di contatti con l’esterno.
Dietro il loro nome, che non è certo il loro vero nome, ma solo il tentativo di collocarli in qualche modo all’interno del nostro mondo fondato sui nomi, dove esiste solo ciò che ha una designazione ed è reale solo ciò che legittima coloro che hanno il potere di nominare; dietro questo nome, dunque, sempre in bilico e a rischio d’estinzione, come d’altronde l’immagine sfocata, indeterminata, di coloro che dovrebbero portarlo, si evoca qui ironicamente (e non senza una vera tragicità) il carattere di sentinelle che certi viventi, posti ai confini di una estrema possibilità, incarnano a partire dalla propria unicità interiore e di gruppo, la quale si mantiene irriducibile proprio perché il nostro mondo di nomi non ha una totale presa su di essa e non riesce a ridurla a cosa da interpretare e valorizzare all’interno dell’universo simbolico che caratterizza la civiltà.
In realtà, la vedetta che vigila un confine, a un’estremità del proprio mondo, è già dentro un conflitto, benché possa esserne ignara o sentirsene avulsa.
Se esistono dei confini è perché esistono dei territori e se esistono dei territori è perché c’è stato a monte un processo di appropriazione e di stanziamento in essi. Creato un mondo e definita la sua soglia, al di là di quest’ultima rimane o fa comodo pensare che ci sia solo l’ignoto o il nemico.
Con l’avvento dell’agricoltura e la sedentarizzazione dei gruppi umani (parliamo di circa 10.000 anni fa), la guerra è diventata un fattore integrante della nostra civiltà: dinamica normale e normativa di un mondo che aggredisce l’esistente per poterlo ordinare, recintare, possedere, sfruttare.
Il passaggio dal Paleolitico al Neolitico – con la domesticazione progressiva della natura e la conseguente nascita di agricoltura, allevamento e rappresentazione simbolica del mondo – fu con ogni evidenza la conseguenza di una necessità: i gruppi umani, decimati e duramente provati dall’ultima glaciazione (detta di Würm) e da alcuni cataclismi naturali come l’eruzione del supervulcano del Lago Toba, hanno dovuto sviluppare le loro capacità, diventando peraltro molto aggressivi, per utilizzare al meglio le ridotte risorse nutritive e poter quindi sopravvivere e adattarsi come specie.
Gli istinti originari dell’uomo lo hanno condotto a scagliarsi contro la natura e a ridimensionare la stessa naturalità insita in essi in quanto elemento perturbante, imprevedibile e di difficile governabilità.
La sopravvivenza della specie umana, innescando una separazione funzionale tra i suoi individui e il loro ambiente nativo, ha generato dei meccanismi di carattere quantitativo e accumulativo, che hanno sì permesso la permanenza dell’uomo e l’instaurazione del suo dominio sull’intero pianeta, ma al prezzo di una quasi totale perdita di consapevolezza nei confronti di ciò che la civiltà stessa sta causando al nostro mondo, il che potrebbe rivelarsi molto più catastrofico del più rovinoso cataclisma naturale mai avvenuto.
Quando si tira in ballo l’ingenuità, di solito è per biasimare la mancanza di pragmatismo degli altri e il loro inesistente o scarso radicamento nella “realtà delle cose”. Ingenui possono apparire di volta in volta i bambini, i sognatori, i poeti, gli innamorati, i ribelli, i popoli cosiddetti “primitivi”.
Agli occhi di chi si è asservito al tempo del lavoro e delle libertà acquistabili al supermercato, ingenui son tutti quelli che vivono in una dimensione di meraviglia, ossia in rapporto diretto con la bellezza e le radici del mondo e che, appunto per questo, sono ritenuti quasi sempre improduttivi e quindi da educare, compatire, schernire, civilizzare.
In una società fondata su gerarchie e ruoli rigidamente fissati, l’immediatezza dei rapporti tra viventi viene scongiurata, differita, oppure standardizzata e resa inefficace, quasi si trattasse di un’imprudenza, di un difetto.
L’uomo civilizzato ha paura ad esporsi, a mettere in gioco la sua mortalità, i suoi limiti; paura, in sostanza, a prendersi carico delle proprie contraddizioni, a farsi vedere per ciò che è. La sua vita diventa allora una trincea, un bunker dove il relazionarsi col mondo si rivela una guerra, uno spostamento di truppe sul campo minato dei ruoli da difendere e che, a loro volta, non fanno che garantire le dinamiche autoritarie della società.
L’ingenuità del desiderio e l’immediatezza della presenza procedono spesso a braccetto, incarnandosi in ciò che può divaricare violentemente l’immanenza dell’impossibile e la chance sovrana dell’unicità.
D’altronde, se gli uomini calcolassero sempre ogni passo che fanno, non avrebbero modo di conoscere la spontaneità e di “passare la misura” dando il via a nuovi sviluppi del loro mondo.
La bellezza di certi istanti nasce sempre da una disfatta di quelli che sono i limiti di pensiero e di relazione dell’uomo.
L’ingenuità e l’immediatezza fondano la creatività, quest’ultima muove la vita, e la vita, a sua volta, cerca di arginare la creatività per non naufragarvi.
L’argine della creatività è il senso, dentro il senso scorre tutto il flusso dell’esistente; il senso diventa opera, lavoro, ma niente può evitare gli straripamenti improvvisi del pensiero che delegittimano ogni volta l’idea stessa del limite.
Arco e frecce contro un elicottero militare. Immagine folgorante, che elude il buonsenso, lo mette in parentesi, lo costringe a muoversi.
Radicalità della vita, potenza dei viventi: ecco cosa emerge prepotentemente da quell’immagine. Noi sentiamo che c’è in ballo qualcosa di essenziale, qualcosa che ci riguarda da vicino. Avvertiamo un legame che sospende ogni giudizio. La potenza stessa del gesto ci parla senza aver bisogno delle parole.
Ciò che qui possiamo prendere per eroismo o incoscienza, è più semplicemente il fondamento stesso della vita, ossia la forza, la capacità di non indietreggiare di fronte alla morte, all’azzardo, alla qualità possibile della presenza.
L’immagine ci folgora proprio per questo: sembra fuori dal mondo – e in qualche modo lo è, perché ci proietta verso il limite, verso l’impossibile – eppure in questo stesso movimento riesce a sintetizzare senza mezzi termini tutto ciò che noi uomini eravamo, siamo diventati o, pur con tutta la nostra “civiltà”, non sappiamo ancora essere.
È come se quel velivolo minacciasse improvvisamente, anche dentro di noi, la consonanza con l’esistente, la comunità affettuosa tra uomo e natura, l’azzurro del cielo, il ritmo stesso del mare.
Chi può nascondere, a se stesso e agli altri, ma soprattutto al suo cuore in tumulto, il desiderio più o meno recondito di guidare verso il bersaglio la freccia di quell’indigeno?
Discussione tra due massaie, registrata pochi giorni dopo l’avvenimento trasmesso sugli schermi del mondo della grande corporazione occidentale.
«Hai visto quei primitivi che lanciavano frecce contro l’elicottero?»
«Sì, li ho visti. Poverini. Poi, vabbé, poverini… Forse stanno meglio di noi.»
«Già…»
Silenzio.
Mio caro amico, hai sintetizzato splendidamente tutto quel che si oppone al desiderio cui si riferisce il titolo di questo post.
Se mai ci sarà una seconda edizione dell’Ingovernabile, inserirò il tuo “dialogo” come nota in calce. 😉