Tag
7 palazzi celesti, Alva Noto, Anselm Kiefer, architettura, arte contemporanea, Carsten Nicolai, Delirious New York, Filippo Pretolani, gallizio, Georges Bataille, Hangar Bicocca, lasagne, Milano, mostre / mostri, On time space foam, psicogeografia, Rem Koolhaas, Sloterdijk, Tomàs Saraceno
gallizio goes bicocca
(scocca la bicocca)
La cosa più saliente della prima Fiera Mondiale di Manhattan, del 1853, secondo Rem Koolhaas, è l’invenzione dell’ascensore. Otis salì su una piattaforma legato a una corda. Tagliò la corda e non successe niente. Boato di stupefazione: “oooohhh!!”. Era appena nato l’anticlimax, ovvero il miracolo dell’incolumità (cfr. Delirious New York, un manifesto retroattivo per Manhattan).
Elevator
In 1853, at Manhattan’s first World’s Fair, the invention that would, more than any other, become the “sign” of the Metropolitan Condition, was introduced to the public in a singularly theatrical format.
Elisha Otis, the inventor of the elevator, mounts a platform. The platform ascends. When it has reached its highest level, an assistant presents Otis with a dagger on a velvet cushion. The inventor takes the knife and attacks what appears the crucial component of his invention: the cable that has hoisted the platform upward and that now prevents its fall. Otis cuts the cable; nothing happens to platform or inventor (Rem Koolhaas, Delirious New York).
dopo Otis solo Saraceno.
Anselm Kiefer, i 7 palazzi celesti, mi sembrano la perfetta metafora di come tutto quanto è stabile sia precario. Tonnellate pencolanti. Il tempo presente del rudere, il sopravvissuto come ready-made. C’è vita nelle torri? C’è traccia dell’uomo? In apparenza no: sembra scomparsa, la presenza umana revocata in una sorta di dopoguerra, evocato e sublimato nell’astrattezza del cimento biblico. Se anche ci fosse passerebbe in secondo piano: tutto è dominato dal miracolo della statica. Traccia pesante. Peso inamovibile della torre insormontabile. L’uomo è assente come titano (assenza titanica). Siamo gettati a un grado di separazione dalla caduta dei prossimi titani.
Vediamo dal basso la dimensione verticale, una messa a ferro prima che a fuoco.
Visione periferica, circonvenzione del nostro aggirarsi perimetrale, periferico, mai centripeto. Siamo relegati fuori, in contemplazione di questo splendore decaduto. Il paradiso sembra essere sfuggito per un pelo in questa sospensione. La sensazione è che Tutto è già accaduto un attimo prima. Un attimo lontanissimo da cui siamo per sempre separati. Eppure siamo vivi: guardando, per contrasto, la sensazione è di essere scampati a un olocausto, un olocausto che deve essersi giocato poco fa. È come se noi fossimo stati chiamati sulla scena della rovina, fossimo dei testimoni falliti a un accaduto che non ci ha visti partecipare. Un invito a un’esecuzione che non possiamo che ricostruire, ritessere nella reinvenzione dell’archeologo. I sette guardiani della torre, popolo di shardana appena estinto. forse un genocidio. Noi tutto sommato incolumi, non ci sentiamo colpiti in questo teatro di guerra: nulla ci è accaduto, tutto è già accaduto.
Se Saraceno abolisce il futuro sublimato in un presente fondativo evenemenziale, Kiefer ci inchioda alla storia, alla traccia pesantissima di un’epopea ciclopica. Nulla si crea e tutto si distrugge.
Tutto si crea e nulla sopravvive.
Mise en abyme: torri nelle torri -> l’eterogenesi dei fini, l’eterogenesi della fine.
Torri anche come paesaggio lunare: è scesa la notte, l’incanto che salva e sospende la pena. La sensazione è che alla luce accecante del giorno tutto questo sarebbe stato intollerabile, unstandable ununderstandable.
Non c’è fumo anche perché le torri sono costruite (sopravvissute) sulla sabbia, contrasto tra pesantezza della traccia e impermanenza del terreno.
siamo condannati per sempre a contemplare l’arcana meraviglia delle rovine
Carsten Nicolai e il flusso. Tra lo sfacelo di Kiefer separato dalla cesura dello schermo cieco, sottratto (il teatro di guerra è alle spalle), e l’utopia galleggiante di Saraceno, ecco l’enorme sandbox audiovisiva di Carsten Nicolai. Inno alla geometria e alla matematicità del mondo, mondo che si fa barriera sonora allucinata. La luce è fredda, dura, mai aurorale. Lo spazio tempo è campito e scandito fino all’esasperazione. Delirio audiovisivo, sembra di essere invitati alla propria fucilazione. Esecuzione capitale.
Il flusso non è mai libero, nemmeno liberato. Tutto è costretto in una ricorsività senza scampo. La vita è tutta consegnata ai neuroni specchio dello spettatore. Mania di grandezza esaltata dall’indeterminabilità dello specchio. Ma anche qui la vita sembra revocata, evocata nella grandezza dell’occipite, hortus conclusus e tomba a cielo aperto della mente. Non c’è anima nell’installazione. Solo motus animi. La vita al massimo sfonda la barriera del suono come materia grigia schizzata. Imbratta il muro del suono. Audiopsia.
Acéphale – invito a una elettrocuzione: 77 modi per decapitarci
tutto sfrigola, il monitor sfarfalla, il cervello svalvola bivalve.
§ § §
il fatto che due mostre su tre non siano permanenti riconcilia col mondo.
moriremo, ma poco poco
essere l’ultimo a parlare ma non avere l’ultima parola
contesto storico: Milano borghesia operosa (EASchatz), pratica, Pirelli, la cesura di Tronchetti, il passaggio dall’industria alla finanziarizzazione spinta, il tentativo (fallito) di una dismissione immobiliare. La finanza è il messaggio, non importa tu faccia tondini o fibra ottica.
Il punto è che non si può programmare tutto.
Ecco che inavvertitamente la bicocca inizia a volare. Costruzioni impermanenti, utopie necessarie, Constant alla lasagna.
Melotti, le lastre, la soglia, l’impossibile colpo d’occhio. Opera mimetica, opera bruciata all’inizio, opera forzata sulla soglia della propria rimozione.
Tomàs Saraceno. On time space foam
La lasagna saracena, l’impermanenza, la soglia, le membrane, le schiume (Sloterdijk), l’atto creativo, l’interconnessione, l’abitare utopico qui e ora
ed ecco che l’ascensore ritorna: il non evento, lo spigolo, la morte.
L’Hangar Bicocca rivendica la propria verticalità vertiginosa senza alcuna catarsi, ascese senza ascensori. Ascensione mistica di Saraceno: l’uomo si fa Dio in quanto creatore dell’attimo sovrano.
In Saraceno non c’è memoria: ogni passo nel vuoto è una fondazione impermanente. L’opera non dura, eppure ogni istante rivendica la propria durata. E si fa eterno nell’immaginario di ogni singolo asceta. Ascesi -> Sloterdijk “Devi cambiare la tua vita” -> esercizi di ascesi -> Philip Petit
rispetto a Sloterdijk (Devi Cambiare La Tua Vita) c’è il rapporto con l’altro.
Rispetto a Sloterdijk, in Foam c’è l’accettazione condivisa dell’articolazione sociale schiumosa: qui e ora si genera l’alterità come destino condiviso: il mio equi/librio, il nostro equi/librarsi è fondante ma non resta. la sovranità istantanea si fa comunità del qui e ora. Ma il patto sociale è schiuma, l’intesa accade. L’astanza è competitiva: ogni fuga in avanti genera un microtrauma nella lasagna: un taglio, uno squarcio invisibile, la ferita della comunicazione (Bataille, L’Esperienza interiore). I membri sono sempre avvinti nella lasagna, un po’ circensi alla “Hunger Games” (se vi capita di vedere i più giovani librarsi, e tipicamente capita), il collasso è sempre preda del sacco dell’artista artefice, il creatore assente della lasagna. Dio è morto nell’astanza: un dio-provvidenze, che ci ha donato la precarietà del mondo ed è fuggito.
L’opera non permane. Non permane innanzitutto nel suo essere fruita secondo laschi di tempo scanditi e predeterminati: consumo parcellizzato e mediato. In secondo luogo non dura perché tutto verrà revocato, disperso, estradato alle Maldive. Per quanto possa essere prorogata la mostra, la sentenza di morte è solo differita. L’età dell’oro di questa esistenza temporanea e ludica è già inscritta, ascritta nella sua fine.
Non c’è scrittura sulla lasagna, ma sempre solo gesto. Gesto inaugurale, apoteosi performativa. Partitura e partizione. Questo nostro avvicendamento collettivo nella lasagna ci rende strumenti fungibili del suo eternamento. Solo la lasagna trionfa, orribilmente piena/gonfia/enfia di sé.
[L’installazione della schiuma dà l’idea di quanto noi procediamo per assimilazione.
membrane, sotto-sopra, il ragno che vede in orizzontale (mafe de baggis)]
C’è un’allegoria illatente nel mondo di Saraceno, un destino beffardo nel nostro librarsi, essere in gioco già da sempre revocato. Siamo gettati nella lasagna, pasto del ragno invisibile che ci disfece (sempre Hunger Games).
L’accadere, l’attimo fu gente. Apparire, fluire e scomparire. Un sano riequilibrio, che anche nell’economia era apparso con Steiner e la triarticolazione.
La destrutturazione del progetto avviene su due fronti:
1. la statica comparata (Kiefer)
2. la statica scompaginata (Saraceno)
l’astro gittante -> collasso delle membrane che genera lo spazio-tempo -> elogio della sovranità, la fondatività di ogni atto creativo
sintassi che si fanno e si disfano a ogni pié sospinto.
[Le immagini sono di Riccardo Rama de Tisi.]