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Devo ammetterlo. Nel caso di quel flusso di esperienze e suoni che si chiama T/M/K (originariamente l’acronimo stava per Thee Maldoror Kollective) e che oggi confluisce in gran parte anche nel progetto Shabda, sono e resto alquanto parziale. Un paio d’anni fa, fui ospite di Marco Castagnetto e Anna Airoldi, a casa loro, nel Canavese, avendo così la possibilità di un intenso scambio emozionale e di pensiero con due singolarità fuori dal comune e che riescono ad amalgamarsi stupendamente sia nella vita quotidiana (formano infatti una coppia splendida, quasi contagiosa nel suo equilibrio interno), sia nei loro vari progetti musicali. In realtà, con Marco, avevo già interagito più volte, come ricorderanno senz’altro i miei lettori più attenti, visto che il Castagnetto è l’autore delle copertine di almeno tre delle mie ultime pubblicazioni (e illustrerà peraltro, con diverse sue opere originali, anche il mio prossimo libro, Quest’amante che si chiama verità).
Ma la mia parzialità, beninteso, non è legata soltanto alle varie collaborazioni e all’indubitabile amicizia che mi lega ai 2/3 degli Shabda (il terzo componente è il chitarrista Riccardo Fassone). C’è da dire infatti che Marco & C. sembrano non sbagliare un colpo. I dischi di T/M/K sono invariabilmente delle ottime realizzazioni, per quanto la formula del gruppo sia alquanto variata nel tempo, passando da un post-metal molto oscuro e con chiare venature industrial ad un plot piuttosto originale, con sempre più inserti di elettronica e dove non mancano sprazzi jazzistici e blues.
Il primo disco di Shabda, The Electric Bodhisattva, uscito quest’anno per l’etichetta inglese Paradigms Recordings, conferma il talento dei musicisti torinesi e mette in opera un nuovo tassello, spostando la loro attenzione verso un modo compositivo più dilatato, più essenziale, ma non per questo meno netto. I cinque lunghi brani strumentali del disco spaziano infatti dal doom al dark ambient senza perdere un colpo. Difficile individuare vette in una release così compatta e ben riuscita: si passa dall’epico intreccio di drones e arpeggi chitarristici di Canone del termine del tempo, dove non mancano improvvisi riff sabbathiani e un minimale outro pianistico, all’elettricità orientaleggiante e psichedelica di Satyarth Parkash; dagli splendidi momenti dark ambient di Goldspermhumus, che sfociano in un finale dal sapore decisamente “rituale” e che si allacciano poi agli sperimentalismi “tantrici” della successiva Samadhi Nirvikalpa, fino alla conclusiva The Um-lah Tiger, dove un doom ridotto all’osso si ibrida e si scioglie in echi industrial e chitarristici che oserei definire quasi free.
Sempre a proposito di Shabda, ho scambiato di recente qualche parola con Marco. Ne è venuta fuori una breve intervista, che potete leggere qui di seguito.

 

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Perché il nome Shābda? Immagino che, nel vostro caso, il termine sanscrito abbia molto più a che fare col significato di “suono”, anziché con quello (più corretto?) di “linguaggio”, di parola. E mi pare d’altronde evidente che per voi la musica non si esaurisca certo nelle manifestazioni occidentali, che cioè non debba essere intesa banalmente come quell’organizzazione di suoni e ritmi da parte dell’uomo atta a rilegare in modo piacevole o funzionale la sua vita sociale. Insomma, per voi c’è evidentemente dell’altro…

Il sanscrito non ha sinonimi, ed ogni parola ha quindi sfumature molto precise eppure terribilmente sfuggenti, soprattutto quando lo si confronta con le modalità linguistiche occidentali e quindi col nostro modo di pensare. In alcuni contesti shabda è equiparato alla “testimonianza autorevole”, il riflesso del suono primitivo e quindi non strutturato che si riverbera nel corpus vedico. E la testimonianza autorevole è un concetto su cui un sacco di persone ha perso il sonno. Credo che noi tutti si disponga di un personale pantheon cui riconosciamo una “testimonianza autorevole” per il semplice fatto che abbiamo santificato arbitrariamente chi già la pensava come noi. Eppure, il buddhismo è una via assolutamente degna e completa, ma può aver funzionato davvero soltanto con Siddhartha. Il Vedanta è stato la via maestra per Sankara, e lo stesso vale per qualsiasi corrente spirituale. Trovo molto arrogante acquisire una definizione senza macchia, inflessibile, buona per tutte le stagioni. In questi casi non sei un buddista, un vedantin o un martinista, ma è la tua mente che vuole disperatamente esserlo, e non è affatto un buon modo di partire. Occorrerebbe, forse, accettare il buio che si ha davanti e dietro e procedere a tentoni mettendo in conto una serie variabile di facciate contro il muro, perché si viaggia sempre così. Shabda riflette idealmente il divenire (e la stasi) della nostra ricerca, e questa particolare esplorazione usa le proprietà del suono come bussola. Siamo fatti di suono, nessuno escluso.

Come nasce il progetto Shābda? Bisogna vederlo come un side-project di T/M/K? Certo che ne avete fatta di strada dal black metal di Maldoror

SHABDA coverNon credo si possa parlare di un side-project di T/M/K, piuttosto di un gruppo autonomo, con delle dinamiche collettive che durante questi ultimi anni in T/M/K erano venute a mancare. Valutando ciò che è stato da Maldoror in poi credo che l’aspetto più interessante sia stato proprio quello umano. Lavorando con una line-up aperta abbiamo collezionato un campionario di individualità su cui varrebbe la pena compiere un’indagine sociologica [risate]. Amici per la pelle, mezzi nemici, semplici rompicoglioni, gente con talento da vendere, incapaci cronici, razionalisti senza misura e superstiziosi alla canna del gas, e questo si è sempre rispecchiato con una fedeltà sinistra nella nostra evoluzione musicale. Non abbiamo mai avuto una linea di demarcazione davvero netta tra la vita di ogni giorno e la musica. Ma le condizioni – umane e musicali – in cui ci siamo trovati per la realizzazione di Knownothingism [l’ultima registrazione di T/M/K, tuttora inedita; NdC] sono state grottesche, e contemporaneamente io ed Anna avevamo cominciato a studiare musica indiana e mediorientale, cercando di declinarne alcuni aspetti in un contesto più statico. Per ora, quindi, Shabda è il progetto che assorbe la maggioranza dei nostri impeti e delle nostre bestemmie. Dovremmo deciderci a cercare di piazzare in qualche modo Knownothingism, ma sono proverbialmente piuttosto trascurato e non riesco ad ipotizzare un termine per questa missione. Però il nuovo album di Shabda è pronto.

Il vostro The Electric Bodhisattva è un disco omogeneo, compatto, coerente, dove anche poche note riempiono l’ambiente mentale di chi ascolta. Eppure le influenze sono tantissime: dal doom al dark ambient, dall’industrial alle sonorità indiane, ecc. Difficile non pensare all’idea di un viaggio, di un percorso e di una condensazione musicale e concettuale delle vostre precedenti esperienze.

Sì, e nel nuovo lavoro abbiamo ulteriormente ridotto le note a nostra disposizione. La linea ideale è quella di concentrarsi sul suono puro: ci sono mondi interi che nascono e muoiono in una singola nota, e questo è il campo che attualmente ci piace coltivare. Tutto viene composto e registrato con un ampio surround naturale, nella nostra casa nel frutteto. Siamo evidentemente degli agricoltori sonori, e nello stesso tempo ho scoperto una dimensione magnificamente sonora del coltivare la terra. In qualche modo questo rientra nel flusso che si muove dietro a Shabda. Dici bene: lo scheletro concettuale ha cambiato i termini ma è sostanzialmente inalterato dai tempi di Maldoror, piuttosto si è asciugato e condensato, mentre i suoni si sono rarefatti attraverso una sorta di economia ontologica. Tagliare le zavorre, buttare di sotto – o di sopra, dobbiamo augurare il peggio possibile a tutti i nord che scleroticamente non sanno essere sud, e viceversa – i bagagli che non servono, rubando invece tutte le tecniche di volo che il suono può insegnare. La musica occidentale ha perfezionato ed applicato l’armonia e la coralità rimanendo povera di ritmi e suoni (penso al vincolo dell’accordatura perfetta cui è legata la dimensione orchestrale per poter gestire partiture complesse), mentre alla musica orientale è accaduto il contrario, sviluppando uno spettro di suono e ritmo di incredibile ricchezza rimanendo in un contesto prevalentemente monofonico. Noi stiamo lì, su quella specie di confine impercettibile, ma la costante è il blues. Non c’è cultura musicale priva della propria blue note.

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