«Comeché il poeta abbia detto di volersi ritirar dalle fiche, non si sentendo ancor la vena sgonfia, né la fantasia sborrata affatto, vi dà su di nuovo. E parmi, che abbi fatto come quello spagnuolo, che quando si fu confessato di tutti i suoi peccati, ritornò al confessore a dire, che s’era dimenticato d’uno peccadiglio, e questo era di non credere in Dio.» (Annibal Caro).
I fiumi si perdono nel paese del mare. Ma il mare non è un’idea.
Adagiàti, torniamo a galla ogni volta, dopo aver corso il rischio di
amare invano tra i lacci della necessità.
La solitudine non esiste. Esiste semmai l’isolamento. Ed è sempre una
una zavorra, una costruzione sociale.
Ho studiato i palmi delle mie mani. Ho seguito le direzioni e gli
incroci delle linee. Mi son perso stringendo gli altri.
E non è mai confortevole attaccarsi a qualcosa, soprattutto se vuoi
sottrarti alla necessità dei numeri e alle trappole del sollievo.
Si finisce sempre per scorticarsi la pelle contro la
corteccia della passione,
in quell’abrasiva protervia che ti fa toccare il culo d’ogni pensiero.
Insieme,
siamo la chiglia e il principio d’Archimede.
Il problema della calma non si pone neanche,
quando navighi a vista e la tua terra
va aprendosi come una falla irreparabile e bella.
Sei tu, ironia del fuoco?
Se ascolto il tuo corpo, sentirò che sottovoce mi
dice di non parlare, di tacere in nostro nome.
Al di sotto delle voci, attraverso la scrittura che si dona agli altri
come un perpetuo andare, mano nella mano,
verso la fine dell’interrogazione,
unirò i punti delle ossessioni più gentili e
resterò senza firma.
Solo in quanto limitato,
posso aprirmi con te all’infinito ricominciamento del comune.
Il mio essere per le tumescenze amorose:
ricerca puerile non di un ritorno,
bensì di un esodo,
in te, attraverso te,
per sempre rilanciato.
«Per divina grazia uomo libero, io mi rido de pedanti. Io non mi son tolto da gli andari del Petrarca né del Boccaccio per ignoranza ché pur so ciò che essi sono, ma per non perdere il tempo, la pacienza e ‘l nome ne la pazzia del volermi trasformare in loro, non essendo possibile. Più pro fa il pane asciutto in casa sua che l’accompagnato con molte vivande a l’altrui tavola.» (Pietro Aretino).
14 agosto 2013
qui di stanco non c’è proprio nulla.
STRAORDINARIO POST!.
come se nuotassi tra una sponda e l’altra, un incendio alle spalle e l’ordine degli approdi di fronte e ancora, un filo di incertezza sulla diagonale di bracciata.
Sì, qualcosa del genere, e sperando spesso che quell’incendio non sia semplicemente una stanca metafora.
La stanchezza è una condizione riduttiva. Non dice nulla, nulla della tensione verso la fine, di quella fine che non finisce che è propria degli incendi.
Se ne parli, che tu sia brace o fiamma viva, non puoi non percepirne la precipitosa necessità, eppure se non ci fosse una preoccupazione lieve, un terrore in filigrana che spesso è la ragione stessa della combustione, o la sua anima – il fuoco ha una struttura? – non varrebbe la pena bruciare.
Interrogarsi ancora sul senso di quell’esodo che in fondo da sempre andiamo cercando, l’esodo dell’io, l’esodo delle forme. Non si può farne a meno, anche se è solo una bracciata mossa dall’incertezza, si è in due, tre, mille. Se guardi da lontano, vedi un brulichio sulle acque bollenti attorno al vulcano.
Ne vedo di cose, da lontano. Ma il punto, secondo me, è riuscire ad addensare visioni, generare vicinanze, divenire toccanti, visto che le mani dell’uomo non possono trattare o trattenere né il fuoco, né l’acqua.
Che l’ironia che qui adombro stia proprio nel movimento dettato da questa impossibilità? Chissà.