Tag
Aristofane, borghesia, discorso amoroso, eros, erotismo, età moderna, letteratura italiana, letteratura licenziosa, Medioevo, mito dell'androgino, modernità, nascita del capitalismo, nascita della lingua italiana, Pietro Aretino, Poesia erotica italiana, simbolo, storia critica dell'amore, storia dell'erotismo
[Alcuni estratti dalla mia lunga prefazione al volume Poesia erotica italiana dal Duecento al Seicento. Il saggio in questione s’intitola Quando le parole fanno sesso. Elementi per una critica dell’erotismo e del discorso amoroso, e costituisce un insieme unitario di riflessioni che farà da base per un lavoro molto più grosso e ambizioso, ovvero una mia storia critica dell’amore dalla preistoria ai giorni nostri. P.S.: le illustrazioni del post sono altrettante incisioni licenziose di Agostino Carracci (1557-1602).]
* * *
(…) Nell’Italia medievale, soprattutto dopo l’anno Mille, la crescita economica dei ceti artigiani e mercantili “borghesi”, la ripresa degli scambi e l’autonomia politica e culturale dei Comuni del Centro-Nord, furono tra le cause del passaggio dalla lingua latina a quella volgare.
Il latino medievale rimase appannaggio dell’alto clero e dei dotti, in quanto lingua codificata e “autorevole”, mentre il latino volgare parlato dalle classi subalterne fu attraversato da svariati flussi di semplificazione (basti pensare, ad esempio, al minor numero di declinazioni, alla scomparsa del genere neutro e al diverso sistema vocalico dell’italiano) e andò incontro ad un arricchimento lessicale dovuto non solo al contatto con i popoli invasori o con certa letteratura francese (fablieaux e chansons de geste), ma anche grazie alla maggiore libertà espressiva del “volgo”.
In ambito linguistico italiano, a partire dal XIII secolo, vengono a crearsi due distinti processi. Anzitutto, si ha la progressiva codificazione di una lingua letteraria volgare incentrata sul dialetto toscano; ciò è dovuto sia alla grande influenza esercitata dagli scrittori fiorentini (Dante, Petrarca, Boccaccio), sia al potere economico e politico dei Comuni toscani dell’epoca. Parallelamente, le specificità geopolitiche della penisola facilitano e mantengono un insieme di “lingue minori”, di imbastardimenti locali del volgare o di riviviscenze dei dialetti che produrrà incessantemente delle linee di fuga, delle sperimentazioni all’interno stesso della lingua nazionale che si va coagulando, aprendo così degli squarci di libertà (o delle semplici nicchie di sopravvivenza) a tutto vantaggio delle culture subordinate, antagoniste e minoritarie. Un chiaro esempio è lo sviluppo di quei filoni scherzosi, allusivi o pesantemente osceni che attraversano i primi secoli della letteratura italiana: dalla poesia “alla burchia” ai capitoli berneschi, dalle intemperanze aretiniane alla poesia fidenziana, da certe triviali parodie del marinismo fino ai versi erotici di autori dialettali del Settecento come il veneziano Giorgio Baffo o il catanese Domenico Tempio, si ha la continua emergenza di temi burleschi e sessuali che vanno ad attaccare, da un lato, la staticità del mondo feudale e, dall’altro, i luoghi comuni di quel nuovo potere che si va “addensando” storicamente intorno all’affermazione economica della borghesia (cfr. Antonio Piromalli, Storia della letteratura italiana, 1994, capp. I-XI).
Lo sviluppo di una lingua è sempre la risultante di un processo, di un movimento teso a far emergere i segni e le formazioni significanti che si rivelano funzionali alla produzione, al raffinamento o alla messa in discussione dei saperi. I segni e le rappresentazioni sono strutture originate dalla riflessione umana sul divenire, sull’attraversamento dei mondi reali o possibili. Il divenire delle relazioni tra uomo e cosmo implica d’altronde una verifica incessante del territorio fisico e mentale in cui si va ad agire. Il fenomeno stesso della vita abolisce costantemente l’idea della morte, della fissità, e ci allontana senza posa dalla staticità del pensiero. Il divenire è la costante ripresa (il rinnovato pensiero) di una contiguità tra tutte le cose. Una volta persa la continuità originaria con la natura, l’uomo cerca di ricostituirla almeno artificialmente nel dominio del pensiero simbolico. Emblematico è l’etimo stesso della parola simbolo – dal greco σύμβολον (súmbolon), composto dalle radici: σύμ- (“insieme”) e βολή (bolḗ, ossia “lanciato”, “messo”) –, il cui senso è chiaramente un metter insieme parti distinte, separate; evocazione o progetto di una connessione, di una ri-associazione con corpi o elementi “originarî”.
Anche l’amore carnale ha assunto storicamente un significato simbolico di ricomposizione rispetto ad una perduta unità originaria, basti pensare al mito dell’androgino primordiale narrato da Aristofane nel Simposio di Platone. Secondo la narrazione aristofanea, gli umani appartenevano originariamente ad un terzo genere, l’ermafrodito, il quale riuniva in sé i caratteri del maschio e della femmina. Avendo però insidiato l’Olimpo, gli ermafroditi furono duramente puniti da Zeus, che li tagliò in due. Da quel momento, le parti così separate inizieranno a cercarsi senza posa e Zeus, mosso infine a compassione, le doterà degli attuali organi genitali consentendo loro di ricongiungersi e riprodursi. Tale concezione mitica considera l’individuo una frazione, una “sezione” dell’uomo completo originario, e pone parimenti una complementarità tra le due “metà”. La loro attrazione non è dovuta però soltanto al sesso, ma si basa più propriamente su un desiderio di fusione con l’esistente e di compiutezza dei processi vitali. L’uomo formava originariamente un “tutto” e, per Aristofane, il desiderio e la ricerca di questa totalità perduta si chiama amore: «τοῦ ὅλου οὖν τῇ ἐπιθυμίᾳ καὶ διώξει ἔρως ὄνομα» (192e10-193a1).
(…) Nella fase di passaggio dal Medioevo all’età moderna, si ha un mutamento di prospettiva nella concezione dei rapporti amorosi: si tende ad una maggiore individualizzazione dei sentimenti e ad una privatizzazione dell’amore. Cambia il terreno sul quale vanno a interagire le libertà dell’individuo e delle comunità umane. L’amore cristianamente inteso, che emana da Dio avvolgendo tutto e tutti, si frammenta e va ad incistarsi sui nuovi flussi di gestione del potere.
L’idea classica di libertà era vincolata allo stato sociale dell’individuo, alla conservazione della comunità di riferimento (la polis) e all’incidenza del fato, visto quest’ultimo come ordine ineluttabile di tutte le cose, nel bene come nel male, e dove però l’uomo poteva optare per il bene, per la cura corporale e spirituale di sé, in una parola: per la “libertà” di migliorarsi onorando il proprio destino. Con il cristianesimo, la libertà dell’uomo viene agganciata invece alla salvezza dell’anima, diventa il rovescio del peccato originale, resta legata alla misericordia di Dio ed è subordinata all’espansione e alla conservazione dell’ecclesia cristiana, ossia della comunità di base e delle sue strutture di governo. Nella dottrina cristiana, il determinismo fatalistico degli Antichi viene superato introducendo il concetto di libero arbitrio: l’uomo acquisisce la libertà di salvarsi, di operare secondo giudizio per la salute della propria anima. Il libero arbitrio va dunque considerato il fondamento teologico dell’idea astratta e positiva di libertà, che prenderà poi forma nei sistemi di pensiero razionalisti della modernità (la Riforma luterana, in senso opposto, metterà in discussione il libero arbitrio e sosterrà la predestinazione, reintroducendo così degli elementi deterministici; tuttavia, allo stesso tempo, legherà la salvezza dell’anima alla fede e non più alle opere dell’uomo, così da produrre un affrancamento morale del lavoro e degli affari umani dal dominio religioso e, di conseguenza, uno sviluppo storico delle libertà economiche). Il declino del feudalesimo – e la progressiva rottura della sua staticità sociale, delle sue economie di sussistenza e dell’unità teologico-politica che lo governa – non implica paradossalmente una crisi di valori, bensì una loro proliferazione, una loro frammentazione sociale. L’incrinarsi delle strutture feudali genera molteplici istanze di libertà e apre nuovi territori all’esperienza e al pensiero umani. In realtà, la struttura fondamentale della società cambia lentamente, se si eccettuano beninteso i nuovi contesti urbani, tuttavia s’intensificano la mobilità e la circolazione dei suoi diversi elementi. Emergono istanze sociali che attivano un dinamismo inedito – la borghesia cittadina, il ceto affaristico proto-capitalista – e, all’interno di questo movimento, anche la circolazione delle idee diventa valore e processo di valorizzazione dell’esistente. Con l’affiorare delle dinamiche capitaliste, si afferma una libertà legata a doppio filo alla circolazione economica dei valori prodotti dall’uomo, ivi compresi i valori “culturali”. A partire dal Basso Medioevo, l’impulso socioeconomico dato alla circolazione dei valori (merci, denaro, idee, forza-lavoro contadina che si va inurbando) comporta infatti una maggiore libertà di movimento e di opinione in capo ai soggetti sociali emergenti. L’individuo diventa vettore e riproduttore di valori sociali sempre più astratti e normati, anche per via della generale razionalizzazione degli apparati statali. Nella sfera politica, ogni individuo viene quindi assoggettato progressivamente al diritto positivo degli Stati, ma acquisisce di rimando un controvalore in libertà, in diritti soggettivi da poter “spendere” nella vita quotidiana.
I mutamenti e le contraddizioni dell’epoca che va verso la modernità si riflettono chiaramente anche nei processi artistici e letterarî. Gli spiriti più sensibili, consci di essere i produttori di una legittimazione culturale del potere, e pur restando aggiogati al carro di qualche mecenate gentilizio o ecclesiastico (in perenne oscillazione tra Impero, Papato e piccole sovranità locali), cercheranno nondimeno di ritagliarsi degli spazî di libertà dentro i nuovi processi storici.
Nel periodo che va dalle prime codificazioni del volgare fino alla Controriforma, la storia della letteratura italiana è punteggiata da figure di autori indocili, refrattarî all’accademismo, e che spesso usano, in maniera programmatica, un registro beffardo, allusivo, quando non addirittura violentemente osceno. Una volta abbandonato il sentiero tracciato dalla tradizione petrarchesca o dal dogmatismo grammaticale dei pedanti, ci si può allora imbattere in spiriti inquieti come il Burchiello, Antonio Cammelli, l’Aretino, Nicolò Franco o Anton Francesco Doni.
Pietro Aretino, nelle sue Lettere, traccia a grandi linee, in modo netto, quasi brutale, una poetica mirante ad una maggiore autonomia del letterato, sia rispetto agli imbolsiti modelli classici e rinascimentali, sia nei confronti di ciò che ne allontani l’opera dalla realtà, dalla “natura”: «Andate pur per le vie che al vostro studio mostra la natura, se volete che gli scritti vostri faccino stupire le carte dove son notati (…) io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo de la natura ne le sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e, mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un campanil senza campane, per la qual cosa chi vuol comporre, e non trae cotal grazia da le fasce, è un zugo infreddato; chi nol crede chiariscasi con questo: gli alchimisti con quanta industria si puote immaginar l’arte de la lor paziente avarizia non fecer mai oro: il fanno ben parere; ma la natura, non ci durando una fatica al mondo, il partorisce bello e puro. (…) È certo ch’io imito me stesso, perché la natura è una compagnona badiale che ci si sbraca; e l’arte, una piattola che bisogna che si apicchi; sì che attendete a esser scultor di sensi, e non miniator di vocaboli.» (a Lodovico Dolce, 26 giugno 1537).
(…) Il discorso amoroso, nel passaggio alla modernità, riprende e rilancia temi già sviscerati dagli autori classici, ma con alcuni elementi di novità, tra i quali si riscontrano: una radicalizzazione della misoginia; un progressivo occultamento dell’omosessualità e della pederastia (ancora assai tollerate nel Cinquecento); un’accentuazione individualistica della genitalità a scapito delle condotte erotiche edonistiche, “diffuse”, paniche.
Per tutto il Medioevo e l’epoca moderna, la donna resta tagliata fuori da ogni processo di reale emancipazione. Il potere è patriarcale, itifallico, smaccatamente maschilista. Anche nelle espressioni culturali, si oscilla invariabilmente tra un’idealizzazione del femminino, come nel modello petrarchista (ben lungi dalle libertà pornografiche che persino un Catullo si era concesso), e una criminalizzazione morale e senz’appello della donna, vista come eterna seduttrice, puttana e ancilla diaboli. Una tale dicotomia permarrà pressoché immutata fino al Novecento e la si ritroverà ancora, benché in uno sforzo di sintesi positiva, nella poetica di André Breton e dei surrealisti francesi (cfr. Benjamin Péret, Le noyeau de la comète, 1956).
L’omosessualità maschile viene invece tollerata, soprattutto quando non mette in discussione l’elemento virile che è alla base del principio di autorità. Il cazzo eretto è l’emblema del dominio patriarcale – e la questione di quale “vaso” possa mai accoglierlo, al di là delle prescrizioni religiose o giuridiche, appare secondaria rispetto alla stessa necessità della sua erezione, della sua tumescenza (non a caso, il lesbismo è rimasto “indicibile” per secoli, proprio in quanto delegittimazione simbolica del potere maschile). I motivi omoerotici costellano quindi tutta la letteratura italiana dei primi secoli del volgare, giungendo a punte di grande liricità (come nelle Rime di Michelangelo o nei sonetti di Benedetto Varchi), benché in parallelo con un aumento evidente delle espressioni eteronormative o semplicemente denigratorie nei confronti della “sodomia” (si pensi, ad esempio, ai sonetti indirizzati da Nicolò Franco contro l’Aretino, suo ex amico e protettore, in cui quest’ultimo viene accusato astiosamente d’ogni pratica omosessuale).
Sulla soglia della modernità, c’è da rimarcare anche la definitiva rottura del legame classico tra le esperienze omoerotiche e la pedagogia. La trasmissione del sapere mediante l’interazione dei corpi e la loro comunanza erotica viene sostituita da dispositivi pubblici, asessuati e che configurano le individualità a partire dalle idee sociali dominanti. Il sesso non funge più da supporto per la conoscenza di sé, viene estromesso poco alla volta dai discorsi intorno alla “verità” (se si eccettua chiaramente l’ambito della confessione) e serve soprattutto ad autenticare socialmente gli individui attraverso la loro qualità morale.
Nel superamento del regime feudale, vengono a sfilacciarsi i rapporti con le strutture tradizionali della società – famiglia “allargata”, comunità rurale, vassallaggio, ecc. –, portando ad un’emergenza dell’individualità, ossia alla creazione di una qualità sociale in capo all’individuo, sganciato funzionalmente dai vincoli comunitarî di base e dotato di libertà solo all’interno delle crescenti mediazioni statali ed economiche. L’individualità costituisce una sorta di territorio microstatale, di enclosure, di meccanismo particolare della valorizzazione generalizzata, dove l’individuo non si autentica più in riferimento agli altri viventi con cui interagisce (pur sotto il grande ombrello teologico), bensì attraverso le pratiche, i discorsi e le legittimazioni fornite dalle strutture sempre più “razionali” della società. Le comunità originarie, fondate sull’immediatezza e sull’unitarietà mitica del mondo, vengono disgregate dal movimento della modernità, e i loro frammenti finiscono per essere cooptati e organizzati in nuove relazioni di potere, dove l’infittirsi delle frammentazioni (e delle separazioni tra i frammenti) non fa altro che aumentare il numero e la necessità delle mediazioni sociali, nonché la subordinazione di ogni frammento – di ogni individualità – al proprio valore socialmente determinato. (…)
25 settembre – 16 ottobre 2013