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continuità, fare le fusa al mondo, Ken-ichi Murata, L'amore del possibile, libro, scrittura, supertesto
A che serve un libro quando possiamo inscrivere noi stessi dentro la vita? Il libro è solo un testimone, un rilancio, un memorandum per l’impossibile da ritoccare.
Insieme. Accomunati dal tentativo. Aprire una parentesi e annotarvi le paure, la gioia, le sentenze di vita cui attendono gli uomini.
Malgrado i castelli di carta della ragione, la vita rimarrà un libro senza indice.
Avrei voluto sfogliarti come una sorta di compendio su amore e possibile. Non è stato così. È stato meglio. Sei un libro che non finirò mai di leggere.
Aprire varchi con l’incoscienza di chi crede che ci sia sempre una parola tra i corpi che si toccano. Attraversando la parola, il mondo che inventiamo traspira.
Il mio amore è un ponte lanciato verso il supertesto.
Io non sono morto. Ho un sesso sotto ogni parola.
Amore a commento del mondo, le nostre vite sono una lotta per accedere a più destino possibile.
25-27 aprile 2014. Foto di Ken-ichi Murata.
“Nessuno metterebbe una sola parola sulla carta
se avesse il coraggio di vivere ciò in cui crede.”
(Henry Miller, Sexus)
Cara Paola, non sono affatto d’accordo con la citazione milleriana. Per me è sempre stato l’opposto, ossia: mettere nero su bianco ciò che avevo il coraggio di affrontare nella quotidianità, fossero sogni, desideri o pretese. In caso contrario, sarei stato uno scribacchino piuttosto vile (a Roma si dice “cazzaro”). Detto questo, e inversamente, non mi metto certo a scrivere se ho di meglio da fare. 😉
In realtà parlavo più per me stessa…avrei dovuto specificarlo. E infatti resto una scribacchina. Leggendoti mi è venuta in mente questa citazione, forse legata all’emotività che il momento mi impone.
Devo fare un appunto però. Sono convinta profondamente che l’arte in generale, e quindi anche la scrittura, viva la sua massima espressione proprio incentivata dalla conflittualità dell’essere e non essere, un conflitto interiore di sofferenza spesso legato all’incapacità di vivere la nostra vita come essa vorrebbe scaturire libera da noi. Ciò non significa non vivere, ma non poter esternare completamente la nostra essenza.
I più fortunati trasporteranno questa essenza in un opera d’arte; agli altri non resterà che soccombere.
un’opera….con l’apostrofo…..non che a casa di uno scrittore faccia proprio la figura dell’analfabeta:)
In realtà, a ben vedere, soccombiamo praticamente tutti. Georges Bataille, non ricordo più in quale suo scritto, si poneva giustamente la questione di chi potesse mai ricordarsi di lui 10.000 anni dopo la sua morte… La sua risposta, non a caso, era stata: nessuno! Una tale consapevolezza ridimensionarebbe di molto alcune nostre velleità e ci renderebbe forse più leggeri, più disposti a (per)donarci senza troppe fisime, chissà.
Detto questo, sono d’accordo sulla conflittualità che ci mette in opera. Solo che io la individuo all’interno delle relazioni che ho (abbiamo) col mondo e con le cose del mondo. L’ontologia, per quanto mi riguarda, è solo un possibile coperchio di questa pentola a pressione che chiamiamo umanità.