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Sentirsi invincibili – e gioiosi alla disfatta – come il cane che rincorra un treno.

C’è della tempesta nell’abbigliamento di certe voci. Rilancio. Indiscrezione nei confronti del ritmo che sarà.

Non bisogna commettere l’errore di ritirarsi in un cambiamento. La nostra presenza revoca l’indefinizione di ogni vivacità. Netta, si afferma la soddisfazione del ruscello.

Il tuo volto è una questione che non posso affidare alle parole, all’avvenire. In rapporto alla potenza del sorriso, lo scorrere delle ipotesi vela lo spazio, lo riempie di traduzioni inutili.

Sospendo la distanza. Tocco le storie.

L’insurrezione non è un movimento che eleva e basta. Essa alleva, anche. Nutre le diramazioni della gioia, abbindola l’autorità del già vissuto, come rampicante che sfidi la protervia del suo stesso abbraccio.

Si tratta di collegare le negazioni. Ma non solo.
I fatti del godimento. Il rigore mobile della gioia che si trasmette di corpo in corpo. Le azioni degne di non cadere nella cronaca.
Si tratta di tentare il salto, l’assolvimento che abbatta le separazioni. Farsi leggeri, smodati, uccidendo la speranza che ci separa dall’ottenimento sempre differito.

Non si può essere tutto. E, avendo una vita, non si ha che l’avere. Occorre quindi muoversi al di qua. Al di qua della stessa idea di movimento. Disinquinare l’affetto. Mordicchiarsi incauti mentre albeggia l’impossibile. Abbiamo ancora da giocarci intere morti.

15 agosto 2014