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Tangy- Phantoms-1928

Nella dimensione dell’uomo civilizzato che monetizza ogni cosa, l’idea di avventura – e di terrae incongnitae da esplorare – non è quasi più plausibile, perché oramai tutto il mondo è divenuto provincia, banlieue, discarica abusiva e abusata dove accatastare i buoni propositi di intere generazioni.
C’è da chiedersi se l’umano sarà ancora reperibile, se conserverà un indirizzo, una dimora, allorché la virtualità e l’inorganico avranno stabilito il proprio dominio sulla materia che vive.
Il postino non suona più due volte. Anzi, è già tanto se continua a passare. Il movimento dei segni – il loro valore di scambio – ha preso il posto dell’umano separandolo da se stesso in ogni dove e rendendogli sempre più difficoltosa la ricezione del senso.
Quanti sono coloro che abitano le proprie parole? Chi può dire di essere ancora vivo senza mordersi la lingua? Dove trovare i pigmenti giusti per disegnare l’esperienza dell’uomo pur partendo dall’indifferenziato degli stabbî cittadini?

La bellezza è un concetto dinamico, una forza vettoriale, un principio di verità in movimento.
Non ci sono forme o definizioni metastoriche, non esiste una tradizione, nessuno può credere di fermare il tempo ipotecando una durata. Al contrario, esiste un’incessante ricombinazione degli elementi estetici, un flusso, un costante divenire della bellezza – enucleabile sì all’interno del suo stesso movimento, ma non determinabile una volta per tutte.
La bellezza coincide con la verità quando diviene uno degli elementi propulsivi della volontà umana dentro un ben preciso mondo di relazioni: ci si riconosce ogni volta umani intorno a fuochi di colori o a tavolozze di parole che legano l’immanenza (e l’imminenza) dell’esperienza umana all’apertura di nuovi spazi o all’affrancamento dai luoghi divenuti nel frattempo sterilmente comuni.
Con tali premesse, una comunità fondata anche o soprattutto sulla comunizzazione della bellezza – e la comunizzazione resta sempre il cardine di ogni idea di comunanza – è già in potenza una comunità di cuore, dove l’occhio, la visione, il sentire, il tocco, la carne, tutto questo e altro ancora concorre alla difesa e allo sviluppo delle singolarità contro l’appiattimento su scala sociale prodotto dalle economie umane.
La cosiddetta bellezza, pertanto, confina da sempre coi territori dell’amore e dell’amicizia grazie all’intermediazione delle verità condivise. Da qui – dal limine che si fa apertura all’Altro e non arroccamento – agiscono poi gli sconfinamenti dettati dalla volontà di oltrepassare i luoghi comuni della vita di relazione.

Tanguy-Reply-to-red-1943

Non avevamo molto da fare in quel paese che ci aveva uniti soltanto per destino.
Vi sono luoghi che non concedono spazio, che ancora non sono posti, che creano scarso agio tra uomini e vita. Ma forse, proprio per questo, sono luoghi dove, chi resiste sviluppando la propria singolarità, apre dentro di sé uno sbocco verso il mondo e gli altri che non verrà mai meno – e che gli darà spesso un tetto, una domesticità, una congruenza almeno all’interno dello spazio che mette in opera.
La cittadina di P. – un popoloso comune del salernitano – è stata per me il luogo in cui ho dovuto affrontare per anni la scarsità di spazi agibili dove poter innescare comunanze.
Ricorderò sempre, con uno strano miscuglio di tenerezza e sollievo, le interminabili serate trascorse a discorrere di politica, arte e varia umanità seduti sulle scalinate davanti ai cancelli della Villa Comunale. Su quei cancelli, a distanza di anni, mi trovo ad ironizzare ancora oggi: diventano quasi la metafora, la cifra esistenziale, il mitologema della mia prima giovinezza – e potrei quasi leggere ogni tappa fondamentale della mia vita da adulto – da presunto adulto – come un oltrepassamento di quelle sbarre, uno scrutarvi attraverso divertito, un eluderne la chiusura.

Ci sono luoghi in cui il movimento è interdetto – e questa interdizione, quando non spegne l’uomo nell’attesa dell’imponderabile, induce alla frenesia. Ci si agita per non ammettere la mancanza di autonomia. Si accetta la guerra per paura che la pace sia un vicolo cieco. Schizofrenie carrabili. Nevrosi da rallentamento. E c’è chi introietta la follia di Sisifo o l’eroismo servile di Filippide.

Ero un ragazzo, quando a P. e dintorni, Michele chilometro se ne andava ramingo per le strade da mattina a sera senza quasi mai fermarsi.
Nessuno sapeva cosa gli avesse scatenato quella follia del movimento, ma se lo incrociavi per strada e gli chiedevi a bruciapelo quanti chilometri avesse già fatto quel giorno, lui ti rispondeva sempre, dicendoti forse un numero a caso, e senza mai interrompere la sua marcia.
E che dire di Andrea ‘o pesatore? Un omone grande e grosso come un armadio – e buono come il pane – che nel suo “disagio mentale” credeva di poter valutare il peso dei bambini solo alzandoli da terra con la forza delle sue braccia. E ancora me lo vedo, tra Casa M. e via L., inseguito da una torma di scugnizzi vocianti che volevano farsi pesare.
Ah, queste patetiche, commoventi “follie”!… Coazione a muoversi senza posa, misurando lo spazio che si ha a disposizione come farebbe un carcerato che misurasse ogni giorno la sua cella nella speranza di trovarla anche solo un centimetro meno angusta. Desiderio o necessità folle di soppesare la vita, per sentirla fra le mani, per sentirne tutta la gravità – tutta la gravida materialità del possibile.

Un luogo è sempre dentro lo spazio: porzione di mondo con un nome, un perimetro, un’estensione in qualche modo definibile. Ogni luogo – fisico o mentale – è quindi tendenzialmente un luogo comune, sia in origine, sia durante i transiti lungo il suo estendersi, perché la sua definizione – il suo essere toponimo e frutto dell’identità – è sempre qualcosa che evoca un incontro, una transazione con l’Altro, un percorso da o verso una comunità, un effondersi, un vivere le forme-di-vita e lo scenario circostanti.
La poesia del movimento (e il movimento della poesia) riprende la materia del luogo e ne preserva il codice, ne ribadisce la definizione, cercando allo stesso tempo di non ridursi alla permanenza.
Senza confini si muore, dentro i confini si langue – e stare sul limine sfianca, rende precario ogni abitare. Eppure, il gioco va giocato, le trame intessute, il transito reiterato – pena la morte del movimento come generatore di senso. Ed è qui – in un oltre che non è mai altrove – che anche la poesia diventa altro: contenitore novello per radici mai divelte; bicchiere mezzo pieno; destrezza ironica per ribadire l’appartenenza – facendo sì che la vita vilipesa o taciuta torni a fluire, a tracimare dai corpi, dai volti, dalle stesse macchine che tentano d’istradarla univocamente verso un totalitarismo dell’inorganico.
In tutto questo, il luogo della presenza non è più uno spazio meramente ambientale, rivelandosi altresì spazio vettoriale, perimetro da ridefinire, distanza da rivivere per tornare ogni volta a casa. Non più quindi il segmento, il tratto spezzato di un mondo compiuto – impossibile da riunire in tutte le sue componenti – bensì la tensione materializzata del segno, il tratto genetico dell’immagine-azione che sarà – conciliazione amorosa col movimento di chi viene, senza che questo possa mai perdere realmente l’unicità di chi va.


Testo scritto nel 2010, con lievi modifiche del 24 agosto 2014. Opere del surrealista Yves Tanguy.



Tanguy-Multiplication-of-the-arcs-1954