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«Non bisogna mai scrivere se non per le passanti.»
Joë Bousquet

 

(…) Devo dire che ho molto camminato e anche molto vagato durante la mia vita, ma poche città hanno regalato ai miei transiti ciò che ha saputo darmi la Firenze percorsa in lungo e in largo negli anni Novanta; forse solo la splendida Lucca dentro le sue mura o il dedalo dei vicoli genovesi o alcuni arrondissements parigini – ma di sicuro è stato a Firenze che ho consumato la più parte delle mie suole, fondando sulla loro usura un’etica degli incontri e una poetica della deriva.
Per me che venivo da una provincia del sud – quand’ancora non pensavo che tutto il mondo fosse provincia – la città di Firenze si schiuse come un ampio ventaglio di circostanze, di eventualità.
L’amore per una donna mi aveva trascinato in Toscana. Non potei far altro che trascinare tutto il mio amore per le strade di un mondo che volevo riconoscere e far mio.

Lo spirito d’avventura ha sempre un che di ottuso, di magistralmente puerile. Si parte certo ogni volta con un’idea più o meno verosimile dello spazio da affrontare, come pure delle modalità per attraversarlo, ma l’avventura davvero autentica nasce sempre da una bramosia inconfessabile, da un desiderio di oltrepassamento senza fine, e può essere rinnovata solo col puntuale misconoscimento di ogni meta raggiunta.
Le mappe disegnate dagli altri ci servono a capitare in un luogo e a non indugiare lungo strade che non sono le nostre, poi però vanno accantonate. La permanenza in quel luogo, o l’eventuale fuga da esso, riguardano solo noi e le nostre personali cartografie. Solo noi, infatti, abbiamo idea di come tracciare il movimento che ci porterà da un desiderio all’altro, da un’intesa all’altra, così da poter soddisfare la nostra fame di relazioni col mondo. Solo noi possiamo sapere qual è la nostra andatura, il nostro territorio emozionale, poetico, e capire quindi in che maniera rintuzzare la necessità economica che ci opprime e che riduce gli spazi urbani alle quattro funzioni individuate da Le Corbusier nella Carta di Atene del 1933: avere un alloggio, lavorare, consumare il tempo libero, circolare.

La conoscenza è movimento, qualità degli elementi che ricombinano il mondo, oppure semplicemente non è.
Il voler sapere ci muove, ci spinge ad attraversare sia gli spazi fisici, sia il pensiero dell’Altro. L’idea di una stasi, di un qualche risultato, è solo un modo per riprendere fiato.

Nei primi tempi che vivevo a Firenze, non mi concedevo molte occasioni per rifiatare. Ero come un ragno esagitato che intesse la sua tela a scapito di un’intera città, ma con la seria intenzione di trattare ogni preda con gli onori del caso.
C’è sempre un che di sovrano e di passabilmente animale nel vagare anonimo per un territorio che non conosci e all’interno del quale nessuno o quasi ti riconosce.
Non vivevo l’anonimità come una mancanza di volto, bensì come un modo per regolare l’identità che mi era stata costruita addosso e che ora non mi giovava più. Mi regalavo una seconda pelle, una presenza di carne e desideri, che solo in parte si faceva armatura (dovevo pur combattere, ero giovane, ero arrabbiato); una sorta di nuova corteccia, insomma, che non risultasse però una divisa, e che mi mimetizzasse nel sottobosco della folla aiutandomi a distinguere i miei veri simili, a colmare i giorni insieme a loro e a farmi restare una volta per tutte nel labirinto fiorito e difficile che chiamo poesia.

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Non ho mai vagato a caso. C’è sempre stato un criterio nei miei smarrimenti, quasi una ritualizzazione nel non voler misurare i passi. Nonostante l’assenza frequente di un perché, il mio girovagare si è imperniato ogni volta intorno allo sviluppo di un gioco e alle regole che accettavo o mi davo io stesso all’interno di quest’ultimo.
Quand’ancora non conoscevo bene le vie della città, i fattori che hanno guidato le mie prime camminate fiorentine possono definirsi, senz’alcuna forzatura retorica, di natura essenzialmente erotico-situazionista.
Una volta scelto il punto di partenza – solitamente nei pressi del Duomo – adocchiavo a mio piacimento una bella ragazza e cominciavo a seguirla, magari perché colpito dall’avvenenza del culo, oppure perché i suoi lunghi e lucenti capelli erano svettati all’improvviso fra la calca dei turisti; ma questo senza la benché minima intenzione di abbordarla. Erano i suoi movimenti, in senso letterale, a rimorchiare i miei passi. Mi piaceva considerarla un segnavia mobile, fluttuante; una compagna di strada inconsapevole, mai una preda.
Cominciava in tal modo un peregrinare giocoso, seducente, che non si poneva limiti di percorrenza e che, talvolta, poteva durare anche per ore.
Di tanto in tanto, incrociando un’altra bella donna, mutavo all’istante la mia esploratrice involontaria e cambiavo direzione, costruendomi un percorso all’insegna dei feromoni e dell’estetica viaria più spinta.
La mia scelta non era quasi mai casuale, o lo era solo in parte. Entravano in gioco fattori o, per meglio dire, vettori che provenivano direttamente dalle strutture culturali del mio desiderio: donne perlopiù more, non necessariamente “vistose” o sexy, ma sempre con un qualcosa che mi seduceva senza rimedio. Il dettaglio poteva essere un paio di tacchi, un sorriso, un tailleur che non nascondesse le curve, un libro dell’Adelphi in mano, un gelato leccato con maliziosa noncuranza, un cucciolo al guinzaglio non meno bello della “padrona”, e così via.
La seduzione agiva attraverso questo dipanarsi di appuntamenti incidentali, in una sorta di complicità momentanea, segreta, sempre mancata – dove l’assenza di un approccio, o di un fine che non fosse un breve transito in comune, implicava meno una manchevolezza e molto di più la potenza quasi mitica, e di per sé incantevole, dei significanti femminili che sceglievo come guide calandoli nel mio desiderio di conoscenza degli spazi.
Avevo all’epoca già l’amore di una donna. E non cercavo di eludere la responsabilità che è dentro il fatto di amare e di venir amato da un altro essere umano. Non avevo bisogno di svuotare il mio pieno d’amore per soddisfare la vanagloria di piccole avventure virili. Il mio amore era da condividere e spargere per il mondo, non certo da banalizzare frazionandolo in tanti rivoli di sperma. Erotizzavo la città per amarla. L’esistente era un costante oltre che m’intrigava senza fine e dove ritrovavo ogni giorno quell’Arianna piccola e bella che mi teneva amorosamente dentro il labirinto. (…)

Carmine Mangone, Il movimento, la seduzione, inedito, settembre-ottobre 2011. Le prime due immagini sono prese dal web, l’ultima è invece una mia foto, scattata il 29 dicembre 2005 in una Firenze innevata.

 

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