Venga il danno. In ciò che di necessità ebbi contro. Venga pure senza nessun preavviso. Ma che almeno. Prenda la strada più breve.
Solo deboli rimedi s’opporranno al lusso mentale che è in me.
Incerto. E nondimeno qui.
(Sono un poeta “impossibile”, snaturato, nient’affatto idoneo al contegno della parola).
Per evitare ogni confusione, il fondo della notte resterà sempre e solo “il fondo della notte”.
Poco importa che la luce sia ancora un’idea morale. Natura caravaggesca del mio pensiero: si deve prestare la mente alla noncuranza del sole, anche a costo di smarrirsi in pieno giorno.
I poeti? Agrimensori dell’inezia figurata.
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«Siete tutti così stanchi – e in realtà solo perché non concentrate i vostri pensieri su un piano affatto semplice eppure grandioso» (Paul Scheerbart).
– Aprirsi all’immanenza degli altri, o all’imminenza della loro critica.
Tienimi per mano. Piccola mia. Non lasciarmi andare.
La verità dell’amore non è mai la stessa. A condizione che. Il movimento generi l’erranza. Perché non sempre l’umano guarisce il suo simile. Ma tanto basta.
Il fatto che l’amore sia. Quindi la verità. La posta in gioco. Il sostare discreto accanto alla tua carne. In attesa dell’accoglienza. Dove persino la frugalità. Il verbo minore (di saliva impaccio). Nella vita che riverbera. Dagli occhi. Da occhi verdi e spavaldi. Che del medesimo. Accolgono lo stagliarsi contro il tempo. E non la distanza del pensiero.
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Leda ha sgozzato il cigno. (Anche il bene proietta un’ombra).
“Mi ami?”.
Gli ideali non son fatti per l’innocenza.
Eravamo all’apice della nostra umanità quando le chimere ci fecero visita.
“Non crediate in me”, è la parola.
Mai nessuno arriverà in tempo per l’eternità.
Sdoganamenti effimeri: il cardo dell’analogia; i favi senza miele del sogno.
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Le inezie cambiano, ma la notte resta.
Ancora speranze? Ancora lo spirito? Ancora l’avverbio di tempo “mai”?
Quando rinuncerete al regime di mantenimento del disastro?
Voi che ve ne state lì, ad impolverarvi la mente in attesa di cadere nella trappola della morte, e vi date un tono di sussiego, o al limite vi baloccate coscienziosamente, e non senza un certo compiacimento, con le diverse implicazioni dell’espressione “ammazzare il tempo”…
Vigliaccheria. Premeditazione. Trionfo di Narciso.
Si rinuncia a tutte le stelle. Si blatera. Si chiama poesia l’imbalsamazione dell’amore.
Mentre sentivate che un vuoto colmo di erudizione, di luci artificiali, di porte sprangate poteva… Ma credete davvero che le vostre debolezze vi aiutino ad avere il rispetto della pietra?
I frammenti di tenerezza che incastriamo tra i giorni non sono un difetto della totalità.
L’originalità dell’impotenza; il carattere puerile delle vostre libertà; l’obsolescenza burocratica della memoria: ecco ciò che realizza la civiltà.
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Mettiamo caso. Che l’erpice sornione della critica. Dimostrando la fallacia dell’arte. Del tono. Dei simposi letterari. C’induca a più facili appigli.
Quale malia. Dopo tutto. Che ci sia sempre bisogno d’ingegnarsi su definizioni novelle.
Per dovere di familiarità col genere umano? Di naturalezza con la propria astratta ragione?
Blandiscimi col vaglio della semplicità. Ripudia in te la farsa dei nomi.
Il sorriso è un laccio.
Le parole conniventi, sorelle, senza tregua misurate.
Non importa quando. Ma il fiore. Il corrispettivo di una stella qualunque. Lascialo scettico sul senso dei propri petali.
(Non c’è solo la natura nel novero delle qualità).
Privilegia il tuo eremo nella mia carne. Concediti la retorica delle secrezioni. Chiavami con un candore nuovo.
Mettiamo caso. Che l’industria dei sensi mi sgomenti. Che l’umanità sia frutto di un’allucinazione:
la massa può cedere un po’ della sua barbarie al poeta, che un giorno, statene certi, gliela restituirà per intero e con interessi decuplicati.
Inforcami così, Ananke, senza il minimo sussiego.
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L’autocritica non serve quasi a niente, se il suo linguaggio porta ancora lo stigma dell’insoddisfazione.
Voi prendete la parola. Ma a chi?
Di originale non ho neanche il silenzio.
Pretendere che lo “spirito” sia la posta in gioco del corpo, non male questa!…
L’infelicità è di cattivo gusto.
La mia speranza verrebbe meno solo davanti a dio.
I più prosaici sono i meno reali.
Vaffanculo morte.
Bisogna dire la verità, prima che [si] finisca sulla bocca di tutti.
“Nella misura in cui”, si riuscirà a fare a meno di una locuzione simile.
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Vienimi a prendere, amore, e lasciami così, fradicio di bellezza. Come è già successo.
La conquista della premura, il tentativo veemente di trovare la chiave del mio corpo; se non altro per differirne i limiti in un angolo di mondo che non sia questa frase.
Allontanarsi dalla nascita.
Conciliato, svelato, sopraffatto dalla vanità dei concetti, o dal corso illegale del pensiero.
Quanta poesia può sopportare un uomo?
– Lei ha preso il nome della vita, ha dato i miei pensieri alle fiamme, mi ha rivelato che non significa niente amare i fiori, le pietre, e che il cielo non ha colore, se nell’amore che porto alle cose non do affatto spazio al voto formulato un giorno per appartenerle.
Seconda sezione di Come per un tentato amore, testo posto in appendice a: Mai troppo tardi per le fragole (edizioni L’orecchio di Van Gogh, 2009, pp. 82-85). Fotografie di Ludovic Florent, dal set: Poussière d’étoiles.
L’ha ribloggato su sergiofalcone.