All’interno di ciò che si scrive, non potremo mai chiarirci l’impossibilità di un vero punto finale. Ogni incipit è un attacco, un richiamo incessante a tale impossibilità. Non meno di questo. E nondimeno già oltre tutto questo.
Si vive, si tenta di ergersi dalla terra che ci reclama senza posa, ma i termini della questione non sono dati. Io scrivo – do una qualche forma al mio pensare – anzitutto per sentirmi elemento delineabile all’interno di quel moto che fa di me una presenza viva, acuta; ma questo stesso moto cancellerà poi ogni mia traccia, ogni tentativo di salvezza.
– Anziché “moto”, stavo per scrivere “mondo mobile”. La differenza non è minima. Il mondo è la necessità che raccoglie tutti i corpi, tutti le trame dei viventi, eppure la possibile perdizione (la dizione per) resta la medesima, sia verso il movimento, sia rispetto alle soste, alle tappe, alle case che erigiamo.
Dinamica o vettore, l’esistente è sempre la mia narrazione, il panorama di relazioni in cui vado a costruire e a dire i luoghi comuni, gli smarrimenti.
La mia unicità di vivente disegna un territorio insieme agli altri, lo abita, lo inscrive in una serie di transiti; oppure lo assedia, lo scompagina.
Entusiasmo per l’incessante. Senza dèi. Senza subordinazione. In un desiderio che mi pertiene dentro un andamento, un ritornello, desiderando un nucleo mobile di volontà, nonché un acerrimo senso di apertura.
Voglio dire, io che cosa sono, se non un frammento di destino, un corpo che galleggia sul pensiero di sé, e che si vuole unico, anche contro il comune, soprattutto contro ogni fissazione del movimento?
La cosa che mi ha sempre fottuto è stata la bramosia, il mio voler prendere a morsi la vita, la poesia, credere che si potesse correre a perdifiato respirando il meno possibile.
Sono stato, senza giudizio, un pessimo giudice delle mie azioni. Ho gestito molto male le tenerezze e le belle azioni degli altri. Non ho saputo trar giovamento dalla mia carpenteria di parole e buoni propositi. Ho ucciso i miei amori. Mi sono isolato nella rabbia quando avevo per mano la potenza dell’affetto più autentico.
Il verbo “bramare” deriva dal germanico bramōn: “urlare, ruggire dal desiderio”. E cosa ho saputo fare, nella vita, se non aggredire i miei stessi affetti urlando loro in faccia tutta la mia paura, tutta la mia inadeguatezza ad amarli e ad essere amato, e facendo per giunta in modo che ciò passasse quasi per una manifestazione poetica del mio desiderio più acceso?
Ho voglia di mettertelo in bocca e cacciartelo fino in gola. Ho anche voglia di leccarti. Una gran voglia d’infilarti la lingua nella fica o nel culo.
Quando abbiamo la lingua indaffarata, e la bocca piena, non c’è alcuna possibilità di sbagliarsi sulla coniugazione dei verbi. Rimane solo un gorgogliare di saliva nell’affondamento di ogni grammatica.
Fare del giorno un campo di eventualità grazie alla messa in opera di un destino. Slinguarti come se le parole non dovessero mai più tornare.
C’è in ballo un nutrirsi, leccando o succhiando l’altro – una poesia cannibale.
Aprile 2015. Opere di Max Sauco.
Credo che tu conosca bene la sensazione che si prova quando si entra in un testo: intendo dire, con entrare, essere in quella specie di altra realtà per cui tu ti estranei da quello che hai intorno (sul treno, seduta su una panchina, stesa su una spiaggia o dove capita).
Immagina di essere lì e entrare in un testo come il tuo. Faticando ad uscirne. La situazione non è solo mentale (io sono Anna Karenina, ad esempio) ma diventa fisica. Smuove. Scuote e risveglia sensazioni carnali. Le richiami perché le conosci. Anzi, loro richiamano te.
Riprendersi ed uscirne è più faticoso, e doloroso. Il dolore deriva dal possesso senza possessore. Accaldata e confusa, riprendo contatto, alzando gli occhi dal testo. Scopare in testa. E trattenere il calore. E non capire dove, come e perché non sei dove hai immaginato di essere un istante prima.
Ecco, una cosa così.
La bramosia. Non a caso parlavo di questo ruggire, di questo urlio di tutti i pori, di tutte le mucose. La bramosia di bramare. Una sorta di ouroboros che sintetizza tutti i sessi cerchiando la realtà e ruotando su se stesso senza posa.
Erotizzare la realtà cosmica. È un gioco sporco. Ma è uno dei giochi più belli da giocare, perché le sue regole nascono a fior di pelle, s’insediano tra le pieghe della carne, soprattutto nelle cavità o nelle tumescenze che dicono la potenza del desiderio senz’aver bisogno di tante parole (magari gemiti, fonemi, parole smozzicate dalla passione, ma non la poesia!).
Le parole dell’amore sono sempre in ritardo di un corpo. L’orgia del discorso non potrà mai riportare la violenza gioiosa di una stretta erotica. Ma si tenta, veniamo tentati. Anche le parole tentano l’amore. I ricordi parlano. I ricordi di quel corpo passato o futuro. Sì, anche il futuro è già in quest’erezione di carne e verbo. Il futuro emerge costantemente dalla presenza che non vuole morire tra le parole, ma che la morte continua a dire, perché la morte è una troia, deve parassitizzare il nostro desiderio, deve foraggiare gli estremi della vita per ucciderci meglio.
Abbiamo detto tutto, ma c’è l’eterno ritorno della tum(ult)escenza che ci fotte. E noi ci fottiamo per eludere la luce troppo intensa della consapevolezza.
Sulla morte: erotizza fortemente. La presenza della morte incita alla vita. Ogni orgasmo è un voler morire in quel mentre. Morire di morte naturale mentre si gode…un’apoteosi. La morte è pura.
E’ la vita la vera troia. Ci conduce dove non vorremmo e nostro malgrado. Ci riempie la testa di desideri e sogni che non afferreremo mai.
Sulle parole: se leggere è vivere due volte, parlare/scrivere è mimare la vita. E’ ridurla quasi a parodia, Ma è importante esprimere: mentre lo facciamo schiariamo le nostre nebbie mentali. O crediamo di farlo.
Credo nella carne. E nell’amore che la riscalda. Vale la pena cercare di fermare quel che non si può afferrare con le parole, sempre inadeguate. Vale sempre la pena.
Per questo leggere e leggerti mi piace.
Ci vorrebbe tempo per risponderti per bene.
Scusa la stringatezza.
Ci si rileggerà poi.
Grazie per la tua risposta
N.
Sui primi tre capoversi del tuo commento, non mi trovo in un reale accordo. – Ma tra le parole e con le parole è molto più facile non accordarsi, No? Vi impera il disaccordo come vezzo dialettico, come cautela patetica…
Nei fatti, rovescerei molte delle tue affermazioni, a partire da quelle sulla morte che mi ricordano anche troppo da vicino il primo Bataille (hai presente l’incipit di L’Érotisme?).
Le parole conservano. Lavorano per la tesaurizzazione dei saperi. A differenza dei corpi vivi, i quali si muovono tendenzialmente in un logico dispendio di sé.
Solo coloro che si sentono davvero vivi, e quindi in sintonia con il ritmo dell’esistente, possono avvicinarsi alla morte senza sminuirsi, senza diminuirsi nella necessità di tenerla a bada (finché il gioco dura, of course).
Il problema è che non possiamo vivere all’interno di quel “dispendio”. Ne subiamo costantemente il fascino e ce ne riempiamo la bocca, ma sappiamo che dobbiamo regolarlo, governarlo, rintuzzarlo, pena una terribile irruzione di morte nei nostri giorni.
Rilanciamo quindi la posta, sapendo di giocare a perdere. Ma la cosa non ci frena, anzi. Lo smarrimento è proprio ciò che più ci fa gradire il desiderio di restare ancorati alla bramosia, al movimento che tiene dietro al nostro battito, al nostro ritmo.
Se ci pensi, la cosiddetta “poesia” è solo un modo per dire il ritornello di chi ama perdersi nella vita, contro la morte, nella speranza che la perdizione (la dizione per) non si metta al servizio del valore e delle separazioni sociali che esso impone.
non dovrei, ma sono colpita dall’acume con cui hai colto il (mio/nostro/universale) battito
lo smarrimento, la bramosia, la risposta alla, per ora, inesistente paura della morte
essa non ci può avere, se la inganniamo con una ricerca di vita intensa, odorosa, sanguinante, dolorosa e inebriante
finché ce la faremo
le parole? tesaurizzano, si, ma il valore del tesoro cambia come cambia la storia degli uomini (tutti)
una cosa resta: ci agitiamo, noi sette miliardi e più di persone, col solo scopo di essere da qualcuno riconosciuti
e amati
il resto è filosofia, letteratura, poesia che gira attorno al mistero dell’amore, il vero, unico e solo motore di vita
l’erotismo…è raffinata interpretazione, con molte variabili, di una delle tante facce dell’amore
tu sei stratosferico nelle tue elucubrazioni, ma aggiri la questione del sentimento amoroso
la libertà non è dal sentimento o se lo è, preferisco restare succube
Cosa ritieni che io abbia aggirato? Pensi che io abbia eluso parte del “discorso amoroso”? Che cosa mancherebbe?
Credo che tu abbia egregiamente risposto nell’ultimo post. Mi sbagliavo.
L’ha ribloggato su sergiofalcone.
rientro, dopo secoli, in WP solo per lasciare un (altro) segno di gradimento
cosa mi piace, da tanto, di quel che scrivi?
l’erotizzazione
e non mi riferisco solo al sesso, che tratti come materia plasmabile, e stupefacente, composta di forme palpabili quasi al tatto
tutto è scritto, sentito e vissuto in presa diretta, immediato
e così arriva dritto dalle pupille al cervello
esplode
ma forse la mia è solo ammirazione per l’estrema, irriverente, sacrosanta (!) libertà d’espressione poetica che possiedi
N.
Cara N.,
grazie di cuore per i complimenti. Ti considero ormai una delle mie più attente lettrici, quindi stimo moltissimo il tuo parere e sono felice quando riesco a “toccarti”.
Che dirti?…
Ho sempre avuto un approccio carnale nei confronti della scrittura, come tu stessa sottolinei. Credo infatti in una materialità del senso che può essere veicolata, riverberata, assunta anche per il tramite di una manciata di parole. Esistono costruzioni di parole che hanno un sesso, un genere. D’altronde, ho più volte fatto intendere il mio uso eminentemente erotico della scrittura. Erotico, non meramente sessuale – benché io finisca per impiegare le parole molto spesso come appendici immateriali del mio cazzo – anzi, devo darmi sovente un freno per non scadere in manifestazioni violentemente “audaci” e senza un briciolo di tenerezza (come accade ad un certo punto anche in questo post; il che non sempre mi soddisfa o dà la giusta idea di ciò che desidero; ma tant’è, non sono uno che riesce ad autocensurarsi – parlo infatti più sopra di freno, non certo di blocco, il che implica un rispetto dell’Altro senza che ciò vada a discapito del mio desiderio).
Mi piacerebbe sapere cosa avviene con quella esplosione cui ti riferisci nel commento… Quali immagini? Quali sensazioni immediate?