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Beozia, bramosia, Cupido, Diotima di Mantinea, eros, Esiodo, Esopo, l'insopportabile questione delle parole, Narciso, Pausiana, Platone, pudore, Saffo, Simposio, Takato Yamamoto, Tespie, tumultescenze
1.
Ai primordi della civiltà greca, Eros (Ἔρως) non aveva un sembiante umano. Rappresentava difatti una forza impetuosa, ineludibile: un dáimōn ingovernabile, principio elementare e generativo dell’ordine cosmico.
Pausania, nel II sec. d.C., riferisce che a Tespie, in Beozia, si anteponeva da sempre il culto di Eros a quello di tutti gli altri dèi, e che i tespiesi ne onoravano una statua antichissima, costituita praticamente da una pietra quasi grezza (Periegesi, 9, 27, 1).
Il culto tespiese, forse di origini preistoriche, era legato anche al mito di Narciso, cioè di colui che era caduto innamorato di se stesso, indotto a ciò da un adirato Eros, e che per tale motivo aveva finito per uccidersi (Conone, Racconti, 24; cit. da Fozio, Bibliotheca, cod. 186); chiara rappresentazione mitologica del pericolo insito nel venir presi, in un modo che oggi chiameremmo “delirante”, dalla passione amorosa e dalle mire di Eros.
D’altronde, secondo Esiodo, il “più bello tra gli dèi” era capace di “sciogliere le membra” sia agli umani sia agli dèi, prevalendo così su ogni loro sapienza e volontà (Teogonia, vv. 120-122). E la stessa immagine delle membra “sfatte” dall’impeto amoroso che compare in Esiodo, torna alla lettera anche in un celebre frammento di Saffo: «Ἔρος δηὖτέ μ’ ὀ λυσιμέλης δόνει, / γλυκύπικρον ἀμάχανον ὄρπετον [Eros che scioglie le membra mi scuote ancora: / dolceamara invincibile fiera]» (fr. 130 V, vv. 1-2).
Nel Simposio di Platone, all’interno del discorso riferito da Socrate, troviamo poi la famosa esposizione sull’amore di Diotima di Mantinea (V sec. a.C.), secondo la quale Eros era nato dall’unione tra Penìa (il bisogno, la mancanza) e Pòros (l’espediente, l’ingegno), combinazione dunque di elementi positivi e negativi, belli e brutti, dove la natura ingegnosa del desiderio si sposa ad una forza perpetuamente inquieta, oscura, oscillante senza fine «tra l’uno e l’altro estremo» – ponte demonico tra il mondo degli uomini e gli dèi.
[Secondo alcune fonti posteriori, legate già alla personificazione fanciullesca del dio, si narra invece che Eros fosse figlio di Afrodite e Ares, frutto quindi di una coniunctio tra bellezza e guerra (cfr.: Cicerone, De Natura Deorum, libro III, 23)].
Da forza primordiale asessuata – o con tutti i sessi possibili –, Eros viene rappresentato successivamente con le sembianze di un fanciullo. Figura efebica, certo, ma proprio per questo legata a doppio filo ad un’economia maschile dell’amore. La personificazione dell’amore nasce dunque come storicamente maschile (virile?).
Anticipando di circa due secoli un mito narrato nel Protagora di Platone (320c-322d), secondo cui Zeus avrebbe inviato la vergogna (αἰδώς) e la giustizia (δίκη) per ingentilire gli uomini e dare stabilità alla polis, il favolista Esopo si spinge ben oltre. In un suo breve apologo – Ζεὺς καὶ αἰσχύνη (Zeus e il pudore) –, narra infatti di come il padre degli dèi avesse imposto il pudore agli uomini facendolo passare attraverso il loro orifizio anale. Il Pudore rimase invero piuttosto seccato da questa decisione e sulle prime si oppose. Non potendo però contrariare Zeus, ottenne almeno che non entrasse per quel pertugio in contemporanea anche Eros, ponendo così un chiaro aut aut: o lui o Amore; al che quest’ultimo, per farsi largo in certi ambienti, dovette farsi da allora necessariamente “spudorato”.
2.
Evocare una trama, un incrocio di fili. Filamenti di pensiero che partono da un punto qualsiasi del labirinto e che dovrebbero trarci fuori dalla morte del pensiero. Il labirinto è la casa di ciò che urge quando si staccano gli occhi da terra, quando ci si erige. Il pensiero è fatto di elevazioni, tumescenze. Anzi, di tumultescenze. Lotta feroce contro l’affievolirsi del ritmo, delle pulsazioni.
Si scrive per coprire l’imbarazzo che ci apre continuamente, che ci scopre – nudi, ottusi, mangiatori di conoscenza a tradimento. Si scrive per ricucire i momenti di questo continuo tradire la mancanza.
Tuttavia, la creazione della pagina non implica l’avvilupparsi in un sudario di parole. Non per me, almeno. Lo scrivere ha sempre a che fare col saper vivere, e quindi con i brandelli di sapienza che andiamo cogliendo o con l’idea di totalità che andiamo potando. Apollineo e dionisiaco continuamente a braccetto. Nessuna binarietà, dunque, ma un continuo danzare sulla circonferenza di quel cerchio magico rappresentato dal Libro.
Zio Fritz si sbagliava. La tragedia nasce con il governo della binarietà, non con l’opposizione tra i principî, e si conferma in ogni effimero punto finale. Smacco dell’autore, sconfitta dello scriba. Dio non sa leggere.
La copertura non tiene, dunque. La trama non riesce a trattenere la morte. Il corpo esulta per troppa vita, qui, eternamente, tra le gambe perfettamente depilate del mondo.
Ciò che io vi leggo – le gambe si socchiudono, il sesso ride, Bataille è morto – appronta un letto di segni per la corrente che ci trasporta.
Non si vive due volte la stessa tumultescenza. Non ci si bagna due volte nella stessa ingenuità. Dopo l’amore, bisogna saper leggere anche il letto disfatto, non solo gli odori della pelle o la stanchezza gioiosa degli amanti. Ogni piega delle lenzuola, infatti, porta con sé l’irrefrenabile logica di un nuovo rilancio, di una nuova rilettura del medesimo.
La bramosia. Non a caso mi riferisco ad un “ruggire”, ad un “urlio” di tutti i pori, di tutte le mucose. La bramosia di bramare. Una sorta di ouroboros che sintetizza tutti i sessi cerchiando la realtà e ruotando su se stesso senza posa.
Erotizzare la realtà cosmica. È un gioco sporco, ma è uno dei giochi più belli da giocare, perché le sue regole nascono a fior di pelle, s’insediano tra le pieghe della carne, soprattutto nelle cavità o nelle tumescenze che dicono la potenza del desiderio senz’aver bisogno di tante parole (magari ci saranno gemiti, fonemi, parole smozzicate dalla passione, ma non la poesia!).
Le parole dell’amore sono sempre in ritardo di un corpo. L’orgia del discorso non potrà mai riportare la violenza gioiosa di una stretta erotica. Però si tenta, veniamo tentati. Anche le parole tentano l’amore. I ricordi parlano. I ricordi di quel corpo passato o futuro. Sì, anche il futuro è già in quest’erezione di carne e verbo. Il futuro emerge costantemente dalla presenza che non vuole morire tra le parole, ma che la morte continua a dire, perché la morte è una troia, deve parassitizzare il nostro desiderio, deve foraggiare gli estremi della vita per ucciderci meglio.
Abbiamo detto tutto, forse non ci rimane nulla di essenziale da aggiungere, ma c’è l’eterno ritorno della tumultescenza a fotterci. E noi ci fottiamo per eludere la luce troppo intensa della consapevolezza.
Una poesia terra-aria per abbattere Eros?
Io credo ancora nella bellezza di un destino: poter annusare l’altro e sentire che si è parte della medesima narrazione; agire d’impulso e sottrarsi all’economia d’un progetto; creare un dispositivo “culturale”, rendendolo riconoscibile, per poi distruggerlo e vedere meglio che cosa possa esistere al di fuori di esso.
Pur appiccando dei fuochi che vorrò comuni, l’eterno ritorno del desiderio mi salverà da me stesso facendomi smarrire ogni volta in un modo più raffinato. Palpeggerò con ironia il culo della poesia. Il mondo resterà una splendida ipotesi. Lo spettacolo non sarò io. Giungerà sempre almeno un corpo a criticare i miei smarrimenti e la mia necessità.
[La prima parte è un cut-up di miei frammenti già editi su carta, tra cui Poesia erotica italiana dal Duecento al Seicento. Nella seconda è stato riciclato un frammento pubblicato originariamente sul galliziolab. Le opere sono di Takato Yamamoto.]
“agire d’impulso e sottrarsi all’economia d’un progetto”
ecco, di tutto quel che hai scritto prendo questo spunto:
se rinascessi come essere umano, mi piacerebbe avere la libertà di abbracciare razionalmente ed emotivamente questo principio assoluto di indipendenza
non sarei felice, probabilmente, (l’amore non sarebbe concesso) ma sperimenterei su di me tutta la potenzialità (mente e corpo), che potrei esprimere liberamente
senza nuocere a nessuno, ovvio
(la parte di me, madre, fa ora ferocemente a pugni con l’affermazione di cui sopra, per cui dovrei rinascere maschio, suppongo)