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efelidi, Emma Kirkby, ginkgo biloba, Gottfried Benn, Henry Purcell, musica barocca, SIgur Ros, ulivi
alla mia Zaffetta
Ho aperto la vita
a un branco di efelidi.
Mostrarmi un seno per non mostrarmi alla morte,
avrai detto,
e l’incontro sia pure nel caldo, nel gioco,
a tu per tu con la decisione che non
perderemo,
se la decisione siamo noi.
Grato agli ulivi fermi del desiderio,
alle tue cosce di rame dolce,
ai miei corpi che ne fanno uno per te.
14 luglio 2015. In alto: opera di Paul Laurenzi.
*
Nel silenzio della notte, la voce di Emma Kirkby che canta Purcell. Puro incanto. Delizia. Note d’acqua sorgiva che blandiscono la mia stanchezza.
Sono in piedi dalle 5. Due ore e mezza di lavoro nell’uliveto dalle 6 alle 8:30. La mia prima volta con un decespugliatore, a tagliare erba alta mezzo metro. Non male, me la sono cavata non male. Ne avrò ora per almeno una settimana o forse più.
Possiedo decine di dischi di musica barocca. C’è stato un paio d’anni, ai primi del millennio, in cui non ho ascoltato altro. Mettevo in loop la Follia di Corelli o qualche sonata per violoncello e basso continuo (Geminiani, Lanzetti) perdendomi in qualche occupazione più o meno essenziale.
Nel silenzio della notte, mi fa compagnia anche un vinello rosé blandamente frizzante. Intruglio del genitore. Detesto i rosé, mai bevuti, ma questo è corposo, denso, con un retrogusto quasi fruttato. Non voglio conoscere le alchimie di mio padre – che peraltro non ha mai capito un cazzo di enologia, come d’altronde mio nonno – ma questo vino è un ottimo basso continuo.
La Tabi mi sta appiccicata sul divano facendo le fusa. Anche oggi, ecatombe di piccoli rettili. Ormai, ogni volta che rientra in casa, o mi porta uno dei suoi trofei di caccia o corre a farmi le fusa. Gatta felice, sembra dirmi: “Cazzo, che posto meraviglioso!… Mica poi ce ne torniamo in quel merdoso appartamento?”.
No, Tabi, sta’ tranquilla, nessuno ti porterà via da qui, te lo prometto.
La notte ha un sapore vinoso che colma le crepe dei giorni che furono. Respiro dopo respiro, costruisco una casa d’aria tra le vecchie pietre.
6 luglio 2015
Stamani ho interrato il mio piccolo ginkgo biloba. Nella stagione peggiore, evidentemente. Il caldo stringe ogni vivente, ogni filo del discorso, e la terra qui si spacca insieme alle mie mani, che si abituano molto lentamente ai nuovi lavori.
Spero di tutto cuore che l’ormai decennale alberello viva molto più a lungo di me e di questa casa. Spero che cresca in maniera quasi incresciosa, facendo ombra a me e alle mie inutili paure di domani.
C’è una rudimentale epica, nello stare fermi durante le ore più calde del giorno. Attendere il sollievo della sera, riempirsi i pensieri di luce per poi spegnerli uno ad uno intorno al desiderio di una donna.
In questi ultimi giorni continuo a rompere cose. E a ripararle, quando posso.
La casa diventa intanto sempre più mia. Ora devo solo provvedere a sistemare anche gli spazi esterni, e non solo fisicamente.
Mentre i Sigur Rós diventano la colonna sonora del pomeriggio, mi verso un po’ di vodka e rileggo alcuni versi di Gottfried Benn. Le parole del poeta tedesco hanno a che fare oggi con le spade che dovrò sciogliere nella mia carne, nel mio sangue; con le lame che dovrò tenere affilate per potare amorosamente il mio destino.
(Belle le donne che mi accompagnano da lontano in questa mia stagione essenziale…
Vi amo di un amore senza più leggi, semplice e fermo come le albe della mia terra. Voi e me, qui o altrove, simili a pane caldo uscito indenne dallo stupore di un fuoco incauto).
13 luglio 2015
L’ha ribloggato su sergiofalcone.