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contro l'economia, Crass, fare le fusa al mondo, Gee Vaucher, l'insopportabile questione delle parole, rivoluzione
[Frammento scritto nell’arco di un pomeriggio, il 29 agosto 2011. Le illustrazioni sono di Gee Vaucher (CRASS).]
Morto un papa, se ne fa un altro. Sfiorita una causa, se ne produce un’altra. L’importante è che l’energia dei viventi rimanga convogliata verso qualcosa che la disinneschi.
Non credete in Dio? Vi diamo allora la libertà d’incarcerarvi in un’idea di libertà. Non vi masturbate con le idee? Vi diamo allora la libertà di crearvi il carcere dei vostri sogni con ciò che preferite.
Qual è il problema? Non esiste limite alla vostra paura dei limiti.
E il potere ne approfitta. Perché nel vostro recinto – così familiare, così trendy, così confortevole da starci bene anche quando tutto quel che resta fuori vi urla contro – voi non avete scampo, vi ci asserragliate e non possedete neanche più una logica verosimile dell’evasione.
Non si evade dal carcere della realtà che si è scelti. Lo si può solo distruggere.
Ma con quali martelli? Forse a parole? Crediamo ancora agli incantamenti?
Le parole lasciano le prigioni che trovano, perché le parole sono l’ergastolo del senso e il senso è questa ricerca spasmodica e ridicola dell’evasione dentro le gabbie del discorso.
Le parole sono ineliminabili, sono questo cappotto che ci portiamo in giro anche in piena estate. Pelle strappata a noi stessi e che ci costringiamo ad indossare dopo averla conciata asservendo la vita al pensiero simbolico.
Il simbolo è in tutti noi, ma il carcere non è un simbolo.
La realtà è quest’insieme di figure in cui ci riflettiamo e che rovesciano i limiti del nostro essere nel mantenimento della necessità.
Ma cos’è più necessario del fare a meno di ogni necessità? Cosa c’è di più umano del riappropriarsi del proprio riflesso contro ogni idea d’umanità?
Il pensiero è questo specchio che definisce i limiti e la topografia del nostro andare.
Si vive per cosa? Per chi? Avere cognizione del cosa potrebbe uccidervi. Eppure dovreste almeno suicidarvi al livello del pensiero.
Voi pensate la sofferenza, ma non vi decidete ad affrontarla. Si possono mai affrontare realmente dei pensieri? La trappola si chiude, ed è buffo scoprire che l’avevate piazzata voi stessi nella speranza di fregare qualcun altro.
Il senso di tutto questo vi sfugge e, statene pur certi, continuerà a restare elusivo, finché non smetterete di comprare le finzioni che danno un senso alle mancanze del vostro mondo.
Ciò che comprate vi perde. Ciò che guadagnate vi fa progredire in direzione del nulla. Il vuoto seduce, ma il nulla annoia. La vostra economia è una vacanza senza fine, banale, mortifera, perché voi potete solo svuotarli, i vostri giorni, ma non riempirli, e ciò vi rende stupidamente beati.
Vivete nel dispendio della morte e morite in una penuria di vita. Siete animali che si mordono la coda, puttane in un mondo senza più marciapiedi. Credete di essere furbi, ma la vostra scaltrezza si risolve ogni giorno in un surplus di solitudine, tristezza, insignificanza.
La morte vi anticipa. Precede ogni vostra realizzazione. Binario morto sul quale credete di procedere. E non vi accorgete che state retrocedendo, verso la morte prima della vita, e senza neanche vivere.
La vostra vita ha la stessa pregnanza di un martirio senza santità, senza sangue. I vostri polli in batteria sono l’immagine tragica (e vera) del vostro esser cose che si credono uomini. Non ci sono santi tra i frammenti d’uomo riflessi nelle cose, ma solo imbecilli.
Si scambia l’ebbrezza del vivere con l’ebetudine del comprarsi una vita. In questo, i poveri non sono diversi dai ricchi, solo meno spettacolari nella propria imbecillità.
Ci si compra una vita, una parvenza di unità del proprio essere attraverso i giorni, e così facendo si perde l’unione possibile con ciò che vive (e continua a vivere) nonostante il mercato delle vite.
Eppure la merce è solo un’idea, un’aura imposta alle cose, ai corpi, ai pensieri. Un’idea della realtà. Oppure la realtà medesima che si maschera dividendosi in titoli azionari, in parole, in avatar.
La merce è una visione prospettica e il valore è la sua principale fonte di luce.
Il valore, questa illuminazione artificiale che impasta tutto: contorni, ombre, volti, significati.
La realtà acquisisce un’unità fittizia per poi essere macellata e venduta a brani. Nessuno si salva, perché tutti cercano una salvezza.
Se cercate l’unità, l’Uno vi annienta. Se credete che vi manchi qualcosa, mancherete sempre ad una parte di voi stessi. L’unità è una livella, la morte di tutto, l’insignificanza di ogni forma e sostanza al cospetto del tutto. Da quando fate il tifo per la vostra morte?
L’uomo s’inventa continuamente delle idee (delle “macchinazioni”) che facciano l’unità del suo mondo: Dio, il capitale, ecc.
Il destino dell’uomo sembra risolversi in una qualche tendenza all’universale; come se non esistessero milioni di mondi e di pensieri diversi!
Solo un uomo ridotto a macchina non pensa la molteplicità dei mondi e delle esperienze. Solo un uomo senza più consapevolezza della propria servitù, vede nell’unicità dell’Altro un attentato contro l’unità delle proprie miserie.
L’unicità del vivente squarcia la dimensione luttuosa dell’Uno. L’unicità non è un riflesso dell’Uno, bensì assorbimento del tutto in un gioco che si vuole fuori dal tempo – non stancamente contro il tempo.
Io mi voglio fuori dal tempo quando non traggo più alcun significato dall’essere a favore di questo mondo, dal momento che, per me e per coloro che amo, questo mondo non significa più nulla, mancando ormai globalmente di dignità e avventura.
“Fuori dal tempo” significa che non ci si accontenta di rigirare la clessidra o di fermare gli orologi. Tutte le misure vengono vanificate dalla mancanza di misura. Ogni effetto diventa causa per se stesso. Non c’è più dialettica, ma flusso, tensione, salti in ogni dove: nel pensiero, nelle parole, tra i corpi che cantano la presenza.
Si fa l’amore invece di lavorare. Si scopa invece di fare l’amore. Si dorme teneramente abbracciati invece di scopare. Ci si incide la pelle con un coltello invece di carezzarla. Si segna direttamente la pelle invece di scrivere libri sull’amore. Si scrive il libro e poi lo si brucia. Lo si riscrive nuovamente, ma solo sull’acqua dei tuoi occhi e per perdere ogni libro.
Quando morirò, moriranno con me tutti i libri. La parola è solo l’annuncio di questa scomparsa e dei milioni di stelle che vi ricadono senza posa.
C’è chi insegue l’eternità, gli scampoli d’eterno in un’idea, in un corpo, senza avvedersi di quanto il tempo risuoni a morto nell’idea stessa di eternità.
Quanta noia nell’eterno ritorno e quanta monocorde pochezza nei paradisi di ogni epoca! La bellezza non è eterna e l’eterno non è mai stato bello. Cosa c’è di bello in un tempo dilatato all’infinito e che ci rende ebeti?
Una circonferenza non è formata da infiniti punti. Su di essa c’è invece un solo punto, che si replica a piacimento e senza limiti.
Il mondo cambierebbe solo esteriormente se mutassimo le parole che lo dicono, e non scomparirebbe affatto se smettessimo di dirle. Le parole mancano sempre ciò che si muove dietro il mondo.
Dietro il mondo non c’è l’unità del mondo, né l’uomo con le sue idee; non più almeno di quanto possa esserci un filo d’erba con la sua percezione della fotosintesi clorofilliana.
Dietro il mondo c’è solo la ricombinazione incessante dell’energia. Vi cambierebbe forse qualcosa avere la certezza che si tratti di un processo infinito?
Non si cerca un senso nella direzione, bensì una presenza nel movimento.
La rivoluzione è morta? Un carcere in meno per il movimento. Evviva la morte!
Che ce ne facciamo di una rivoluzione, se questa diventa l’orizzonte totalitario dei nostri giorni?
Un cambiamento dei rapporti sociali o delle sole istituzioni politiche non cambia automaticamente quell’uomo che si vuole servo per paura di un’incerta padronanza delle proprie ombre.
Se la rivoluzione non seduce gli uomini, allora i suoi moti non hanno nulla di rivoluzionario.
Perché dovrei mettere a repentaglio la mia unica vita per qualcosa che non salvaguardi assolutamente la mia unicità di vivente? Dovrei forse immolarmi per l’umanità becera e astratta degli ideologi? Lungi da me avere una fede, foss’anche una fede che faccia a cazzotti con tutte le altre. Chi si perde in un’idea, non può pensare che quella stessa idea possa liberare gli altri. Nessuna idea di liberazione assolve l’uomo se frena le dinamiche che l’hanno generata.
Le rivoluzioni sono mortali come gli uomini, ma i rivoluzionari non lo danno a vedere. La prospettiva di un cambiamento radicale si preoccupa molto spesso solo dei rami, non delle radici. Le radici non si vedono, restano nascoste: materia esoterica, rigorosa, difficile da capire, carpire. Ci si sofferma sui rami, su ciò che permane alla luce, all’aria, ma la verità non è l’evidenza, la verità è un soffio, un rumore che t’inchioda alle mancanze del pensiero e che, proprio per questo, se non ti uccide, ti libera.
Insomma, dovrei rivoltarmi per cambiare il mondo. Ma se il mondo rivoltato non cambia me? Dovrei forse sacrificarmi per un’idea, per l’eventualità di un bene remoto? E se invece sacrificassi l’idea del cambiamento sull’altare del mio amor proprio?
Aveva ragione Max Stirner: tutto quello che fai, lo devi fare per te stesso e per accrescere la tua potenza. Non puoi invaghirti di un’idea, non puoi asservirti ad un processo economico o sociale; finiresti per limitare il tuo mondo e per lasciarti sottrarre l’indicibile che sei.
Great blog poost
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