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Alcuni passi dal mio Il gatto e la sua proprietà (Gwynplaine, 2016), dai quali, tra le altre cose, si comprende agevolmente il perché del titolo. Buona lettura.

 

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Si dice sovente che il gatto sia un animale “anarchico”. Il che sembrerebbe assai facile da comprovare vista la sua indole. Io sarei però più preciso, più ironicamente circostanziato, se proprio vogliamo affibbiargli un’etichetta.
A mio avviso, il gatto è uno stirneriano, un essere che incentra invariabilmente la propria vita quotidiana intorno a se stesso, ai suoi ritmi e alla sua «unione degli egoisti». Non s’interessa alle nostre cause. Non ama la socialità che proviamo ad imporgli acchiappandolo a tradimento o chiamandolo invano quando lui non vuole o non sa come usarci per il suo giovamento.
Plagiando il verso goethiano* citato da Max Stirner in esergo al suo Der Einzige und sein Eigentum (L’unico e la sua proprietà, 1844), potremmo dire che il gatto rende infondata ogni nostra causa che lo riguardi (compreso questo libro), perché la sua causa è solo se stesso, soltanto la propria permanenza in un dato territorio e in precise dinamiche relazionali. (…)

La presunta “domesticità” del gatto (o di altri animali) passa attraverso una nostra costitutiva dipendenza nei confronti dell’idea stessa che ci facciamo della domesticazione. Anzi, le nostre convinzioni a proposito di quest’ultima, soprattutto quando essa riguarda gli altri esseri viventi, ci servono per sentirci più sicuri all’interno del grado di “ammaestramento” di cui è capace la nostra mente, anche nei confronti di se stessa.

Per domesticazione, si deve intendere la capacità di condurre un vivente verso scopi che originariamente non sono i suoi. Domesticare significa quindi determinare l’altro da sé, indirizzarlo, costringerlo in una subordinazione e affinarne gli elementi che si rivelino funzionali al raggiungimento dei nostri fini. (…)

Analizzando in modo assai empirico la parabola evolutiva del gatto negli ultimi 10.000 anni – da quando cioè si hanno documenti storici significativi sulla sua interazione con l’uomo –, mi pare evidente una sua tendenza a “socializzare”, a mettere in comune con altre specie (in particolare con l’uomo) alcuni dei suoi processi vitali.
Fino al 2004, si riteneva che la domesticazione del gatto fosse iniziata nell’antico Egitto intorno al 2000 a.C.; in quell’anno, venne invece scoperta a Cipro, nel sito neolitico di Shillourokambos, una sepoltura risalente al 7500-7000 a.C., in cui, accanto ai resti di un essere umano, fu rinvenuto lo scheletro intero di un gatto di circa otto mesi; il che implicherebbe, già a partire dall’ottavo millennio a.C., un legame “sociale” e spirituale assai forte tra l’uomo e il gatto. In proposito, c’è anche da dire un’altra cosa: all’epoca del Neolitico, vista la separazione geografica di Cipro dal continente, nonché l’assenza di una specie autoctona di felino, era stato senz’altro l’uomo a introdurre volontariamente il gatto sull’isola (cfr.: J.-D. Vigne, J. Guilaine, K. Debue, L. Haye e P. Gérard, Early taming of the cat in Cyprus, “Science”, 9 aprile 2004).
L’uomo sceglie il gatto e il gatto sceglie l’uomo. Ma le tendenze evolutive delle due specie sembrano divaricarsi in modo paradossale proprio dal Neolitico in poi: da animale solitario quand’è allo stato selvatico, il gatto inizia progressivamente a formare “comunità” intraspecifiche e interspecifiche (con altri gatti, con uomini, cani, ecc.); l’uomo, viceversa, soprattutto a datare dall’evo moderno, si individualizza sempre più, costruendosi una sfera “privata” e ponendo una fitta trama di mediazioni sociali tra sé e il mondo.
In altre parole, il gatto sembra aver migliorato le proprie condizioni vitali formando delle “associazioni di egoisti” con membri di altre specie, mentre l’uomo si è impigliato negli stessi miglioramenti della propria condizione, finendo per subordinarsi pesantemente (e subordinando con sé tutta la natura) alle strutture sociali nate proprio per mettere in atto e conservare tali miglioramenti.
Insomma, l’uomo e il gatto hanno adottato entrambi dei meccanismi “sociali” per staccarsi dalla loro originaria alienazione naturale e migliorare così la propria condizione. Sembrano però andati in direzioni molto diverse: l’uomo si è lasciato alle spalle i piccoli gruppi nomadi di raccoglitori-cacciatori della Preistoria per formare nuclei sociali sempre più vasti e stabili, a discapito però del controllo diretto su di essi (delegato a strutture gerarchiche e normative sempre più pervasive); il gatto, al contrario, ha accettato egoisticamente di entrare in strutture comunitarie allargate, a partire beninteso dal contatto con l’uomo, in modo da procacciarsi con molto più agio il necessario per vivere, ma non si è mai lasciato addomesticare fino in fondo, ha sempre conservato in sé una tendenziale riottosità verso tutte quelle dinamiche relazionali che non sono favorevoli al suo benessere.

L’uomo civilizzato vive le sue più belle esperienze come se fossero una sorta di destino straniero, di sciopero poetico contro la propria quotidianità. Rari sono i momenti in cui il reale viene proiettato oltre il possibile. La pratica della poesia resta un’eccezione. Ci si inclina al razionale, al buonsenso, e si preferisce concedere una continuità (una durata) alla propria alienazione, ormai identificata sempre più con la propria integrità sociale. In una simile prospettiva, gli squarci attraverso i quali balugina l’impossibile sono vissuti con timore e vengono bonificati nel dominio dell’estetica, del divertimento. Ci facciamo colonizzare dalle disillusioni senza battere ciglio e troviamo potenzialmente infido ogni vivente che non partecipi alle nostre subordinazioni. Il cielo notturno è stato cancellato dalle luci artificiali della città. Non riusciamo più a individuare la Stella Polare e preferiamo allora essere diretti a discapito del nostro andamento. Siamo smarriti, costretti in un ufficio per guadagnarci un posto al sole. Fuori è il disordine. Si fa un gran parlare del nulla. Vita e morte si trasformano in patetiche mediocrità ontologiche. Un solo destino non sa più essere sufficiente.

Bartleby lo scrivano, protagonista dell’omonimo racconto di Melville, preferisce non affrontare alcuna scelta. La formula con cui egli attraversa e taglia in due la letteratura (e non solo la letteratura), è un condizionale che non lo subordina ad alcunché: I would prefer not to – “avrei preferenza di no”, come traduce mirabilmente Gianni Celati rendendo la tendenziale agrammaticità della frase.
Davanti alla richiesta di un compito (di qualsiasi compito), Bartleby sospende sia l’assenso, sia il diniego. Messo sotto condizione, rinuncia a condizionarsi e disinnesca ogni soggezione con una risposta che elude ogni ordine, ogni comandamento possibile. Nella sua inusitata formulazione – “preferirei di no” non è come dire “preferirei il no”–, la risposta di Bartebly lo svincola da ogni scelta e cortocircuita l’aspettativa che in lui ripone l’Altro.
Lo scrivano di Melville non è un anarchico, eppure la sua manifestazione è quanto di più inconciliabile possa esistere rispetto ad un potere. Di fronte all’autorità, colui che decide di sospendere la scelta, stabilendosi in una continua, indefinita presenza (e non in una mera inazione, non in una qualsivoglia attesa), rimane ingiudicabile e mette in crisi ogni impianto normativo.

Il gatto mi appare come un ponte lanciato tra Bartleby e l’unico di Max Stirner. Giocando con le pretese di domesticazione dell’uomo, e tenendosi sulla soglia del consenso, il piccolo felino entra ed esce dalle nostre case quando vuole. Decide o sospende la decisione a suo piacimento, eppure non viene mai meno al vigilare sul mondo circostante. Anzi, la sua continua vigilanza è forse la vera cifra della sua unicità. Il gatto ti osserva, ti squadra, e poi decide in base alla sua ricerca di soddisfazione, oppure “avrebbe preferenza di no” e, in tal caso, resta sempre ai confini della domesticità, in una specie di sorniona atarassia, senza che l’uomo possa mai ridurlo a una incondizionata obbedienza.

* «Ich hab’ Mein Sach’ auf Nichts gestellt [Io ho fondato la mia causa su nulla]». È il verso iniziale del poesia di Goethe Vanitas! Vanitatum vanitas! (1806).


[ Illustrazione: Wanda Wulz, Io+gatto, 1932, fotomontaggio. ]

 

 

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