[Testo di circa 50.000 battute scritto nel 2012 e rimasto finora completamente inedito. Si riferisce alla mia permanenza a Firenze dal 1996 al 2010. Anni cruciali, molto “movimentati” per me. Lo pubblicherò qui a puntate. Le foto del post sono mie e risalgono alla nevicata del dicembre 2005.]
«Non bisogna mai scrivere se non per le passanti.»
Joë Bousquet
Mi sono sempre impuntato sull’andatura che davo alla mia vita e l’ho fatto ogni volta per non dovermi obbligare a una direzione ben precisa.
Quando hai una meta prestabilita, questa ti riduce, ti comanda: sei costretto a calibrare i passi, a convogliarli in un progetto, a sentirli come un modo per recintare la realtà, magari credendo che così si possa abbordare un orizzonte, un traguardo o almeno un qualche senso lungo la vita in cui ti stai muovendo.
Le strade si snodano sotto i nostri piedi e noi cerchiamo sempre di riannodarle, di sposarle fra di loro in una cartografia familiare. In realtà, se talvolta non ci perdessimo attraversandone l’intrico, non sapremmo più riconoscerle, non riusciremmo cioè a destarci da quella pessima abitudine che ci porta a cancellare la qualità degli spazi nel vano tentativo di preservare i luoghi che vi delimitiamo.
Ad ogni svolta, ciò che ci induce a riscrivere l’essenziale è solo lo smarrimento. Le nostre mappe non ci fanno stare al sicuro. C’è un movimento che le mette in gioco senza pietà; una ricerca incessante, smodata, che ci fa scendere in strada popolati da una volontà che non s’accontenta di andare a braccetto con la ragione. La segnaletica del buonsenso, insomma, non ci contiene più. Ed è questo il perdimento, l’agonismo ironico del pensiero: un girare in tondo senza fine, anche quando il centro di ogni cosa sembra svanito nel nulla, anzi, soprattutto quando ciò accade, per la pura seduzione che gli spazi improvvisamente aperti fanno agire sul nostro stesso movimento.
Prendere a cuore una città sguinzagliando le proprie contraddizioni fra le sue vie è spesso il modo migliore per smarrirsi.
L’idea che avevo di Firenze, poco dopo i miei vent’anni, conservava il fascino démodé che solo le certezze sconfessate da tempo possono avere e di cui però si ha bisogno per gettare un ponte che vada ben al di là delle loro insufficienze.
Giungevo in città e vi cercavo qualcosa che non avesse rimedio.
Quando si è giovani, il nostro modo di attraversare il mondo è spesso intransigente e sgraziato.
Finché è durata, ho avuto la sensazione di non demeritare ciò che restasse al mondo di più avventuroso.
Ne serbo ora un senso di lontananza, quasi di compiutezza. Ho abitato a Firenze diversi corpi, vi ho visto nascere e morire i miei amori capitali. Non posso certo dire di aver fallito la vita, benché io abbia smarrito più volte la rotta. Ora però sono altrove. E questo altrove non è un’appendice, né un frangente periferico di ciò che è stato.
Gli uomini cambiano. Anche i luoghi cambiano. Il mutamento nasce dal ricollocare la propria presenza all’interno dei corpi, all’interno delle relazioni che si hanno col mondo.
Finisci per non sentirti più a casa, nei luoghi che la tua esperienza interiore ha reso comuni, se smetti di dimorare nell’idea che te ne sei fatto.
Una delle cose belle di Firenze è che il centro lo si può percorrere a piedi nell’arco di una solo giornata seguendo per lo più due direttrici, le quali formano una croce pressoché perfetta, che ha il suo punto d’intersezione all’altezza di Piazza della Signoria. Il primo asse va dalla stazione di Santa Maria Novella alla basilica di Santa Croce; il secondo, invece, unisce idealmente Piazza San Marco a Palazzo Pitti attraversando l’Arno su Ponte Vecchio.
Le due direttrici sono in realtà i principali flussi di movimento della gran massa di turisti che affolla la città in ogni stagione dell’anno. La merce ha scavato anche qui i suoi camminamenti; anzi, vi ha trovato un humus fertile, una struttura quasi preordinata a incanalare i proprî adoratori. Chiese, palazzi, musei, mercati – formano qui una costellazione che era fin troppo facile celebrare, sfruttare e rendere ineludibile. La loro presenza è abbagliante. La bellezza di certi luoghi ricorda quasi in ogni pietra la potenza che questo mammifero chiamato “uomo” si attribuisce da millenni. Anzi, in posti come Firenze sembra quasi che l’uomo possa sentirsi impunemente più umano, più incline a giustificarsi per ogni fuga in avanti, e ancora abbastanza saldo nella sua concezione del mondo.
Ci sono luoghi dell’umanità che conservano ormai solo astrattamente l’idea unitaria che è stata alla base degli sforzi fatti storicamente dai suoi abitanti per conservarne il perimetro e l’essenza. L’idea stessa di unità è divenuta improbabile, aleatoria; serve a vendere, a favorire il consumo degli spazi, ma maschera sempre peggio la mancanza di un’unione reale fra i luoghi e chi li attraversa freneticamente senza più viverli.
Il volto di Firenze è mutato in modo brusco e profondo a partire dal breve periodo in cui la città è stata capitale d’Italia (1865-1871). Negli ultimi decenni del XIX sec., venne modernizzato infatti gran parte del suo tessuto urbano realizzando una serie di boulevard e sventrando interi quartieri per poi ricostruirli all’insegna del nuovo decoro borghese e impiegatizio della città (l’attuale Piazza della Repubblica, ad es., sorge dove un tempo erano il Ghetto e il Mercato Centrale; anche Piazzale Michelangelo fu realizzato in quegli anni). L’architetto Giuseppe Poggi, progettista delle principali innovazioni, fu a tutti gli effetti il piccolo Haussmann fiorentino e, come il più famoso collega francese, favorì la razionalizzazione degli spazi urbani al fine di un migliore controllo sociale sui flussi della merce e degli uomini all’interno della città.
Devo dire che ho molto camminato e anche molto vagato durante la mia vita, ma poche città hanno regalato ai miei transiti ciò che ha saputo darmi la Firenze percorsa in lungo e in largo negli anni Novanta; forse solo la splendida Lucca dentro le sue mura o il dedalo dei vicoli genovesi o alcuni arrondissements parigini – ma di sicuro è stato a Firenze che ho consumato la più parte delle mie suole, fondando sulla loro usura un’etica degli incontri e una poetica della deriva.
Per me che venivo da una provincia del sud – quand’ancora non pensavo che tutto il mondo fosse provincia – la città di Firenze si schiuse come un ampio ventaglio di circostanze, di eventualità.
L’amore per una donna mi aveva trascinato in Toscana. Non potei far altro che trascinare tutto il mio amore per le strade di un mondo che volevo riconoscere e far mio.
Lo spirito d’avventura ha sempre un che di ottuso, di magistralmente puerile. Si parte certo ogni volta con un’idea più o meno verosimile dello spazio da affrontare, come pure delle modalità per attraversarlo, ma l’avventura davvero autentica nasce sempre da una bramosia inconfessabile, da un desiderio di oltrepassamento senza fine, e può essere rinnovata solo col puntuale misconoscimento di ogni meta raggiunta.
Le mappe disegnate dagli altri ci servono a capitare in un luogo e a non indugiare lungo strade che non sono le nostre, poi però vanno accantonate. La permanenza in quel luogo, o l’eventuale fuga da esso, riguardano solo noi e le nostre personali cartografie. Solo noi, infatti, abbiamo idea di come tracciare il movimento che ci porterà da un desiderio all’altro, da un’intesa all’altra, così da poter soddisfare la nostra fame di relazioni col mondo. Solo noi possiamo sapere qual è la nostra andatura, il nostro territorio emozionale, poetico, e capire quindi in che maniera rintuzzare la necessità economica che ci opprime e che riduce gli spazi urbani alle quattro funzioni individuate da Le Corbusier nella Carta di Atene del 1933: avere un alloggio, lavorare, consumare il tempo libero, circolare.
La conoscenza è movimento, qualità degli elementi che ricombinano il mondo, oppure semplicemente non è.
Il voler sapere ci muove, ci spinge ad attraversare sia gli spazi fisici, sia il pensiero dell’Altro. L’idea di una stasi, di un qualche risultato, è solo un modo per riprendere fiato.
(1 – Continua QUI)