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Arno, Botticelli, Caravaggio, Crass, Firenze, Guy Debord, parco delle Cascine, Pete Wright, piazzale dell'Indiano, primavera, Tiziano pittore, Venere di Urbino
[La terza “puntata” del mio testo si può leggere QUI]
Le idee vere sono quelle che si muovono, quelle che t’inducono a cercare, trovare, unire.
In fondo, ci si accasa sempre e soltanto nei rapporti favorevoli che abbiamo col mondo, non dentro l’idea che possiamo farci dell’esistente.
Non si dimora in ciò che si sa. L’idea non è una casa. L’idea è una strada, un marciapiede, un cunicolo. Può anche innalzare separazioni, grandi muraglie, ma queste non reggono al flusso incessante della ricerca, anzi, possono addirittura acuirla, raffinarla, indurla a scavare nuove gallerie sotto i palazzi aviti della ragion pratica.
Durante i miei primi anni a Firenze, bivaccavo di sovente in via de’ Neri, una stradina dietro Palazzo Vecchio, dove l’acqua dell’Arno, nelle alluvioni del 1333 e 1966, era arrivata a ben quattro metri d’altezza.
Un paio di targhe, in via San Remigio, proprio all’angolo con via de’ Neri, ricordano appunto il livello raggiunto dalle due piene, e a me è sempre parsa un’enormità, quell’altezza, partendo dal mio risicato metro e settanta.
A pranzo mangiavo volentieri un boccone in qualche bettola dei dintorni e poi ripartivo alla volta della Biblioteca Nazionale o del quartiere San Niccolò, posto sull’altra riva dell’Arno.
Devo dire che ho sempre mal sopportato l’atmosfera chiesastica che si respira in biblioteche e musei. Non ho mai visto di buon occhio l’acquiescenza e l’immobilismo che regnano nei luoghi istituzionali della cultura. Posso certo comprendere le esigenze di tutela e di governo della fruizione, ma non mi piace la distanza che si vuole mantenere e approfondire tra l’uomo civilizzato e le opere del suo ingegno in questa sorta di vetrinistica del sapere, che peraltro lascia fuori o ridimensiona funzionalmente tutte le espressioni di critica che la investono.
Ho la sensazione che la cultura diventi in tal modo un ostacolo, un macigno sempre più grosso, sempre più difficile da manovrare, e che questo faccia comodo solo a pochi, ossia ai “chierici” che gestiscono gli archivi e il flusso delle informazioni.
Trovo sgradevole che molte delle sculture presenti in Piazza delle Signoria, tanto per dirne una, siano delle copie. Non posso fare a meno di pensare che la nostra società preservi l’arte a scapito dell’uomo e che la Primavera del Botticelli, agli occhi di molti dei miei simili, valga più della vita di un qualsiasi barbone che bazzica la stazione di Santa Maria Novella.
Perché io non posso toccare la Medusa del Caravaggio e sentire le vibrazioni che mi riportano non solo il grido della Gorgone ma anche gli ansimi del pittore mentre accoltella a morte Ranuccio Tomassoni o allorché acconcia il cadavere della puttana che gli fa da modello per la Morte della Vergine? Perché non posso slinguare la mia donna di fronte alla Venere di Urbino di Tiziano visto che sono al cospetto di un’opera che era destinata a “educare” la giovane moglie del duca Guidobaldo della Rovere? Perché mi si vieta di bere un buon bicchiere di Chianti conversando amabilmente con qualcuno sotto la Loggia dei Lanzi? Che senso ha la gestione moderna e affaristica dell’arte se questa ci allontana dall’umano e dal suo genio?
Mi viene in mente un episodio ricordato da Guy Debord in un breve scritto del 1963: Les situationnistes et les nouvelles forme d’action dans la politique et l’art. Nel suo articolo, l’intellettuale e rivoluzionario francese, che ha abitato per qualche anno in Oltrarno prima di essere espulso dall’Italia nel 1977 (o almeno così narrano gli “agiografi”), fa riferimento all’azione portata a termine da un gruppo di estrema sinistra venezuelano il 16 gennaio 1963, allorché un commando del Frente Nacional de Liberacion s’impadronì di cinque dipinti esposti presso il Museo de Bellas Artes di Caracas. Le opere “espropriate”, facenti parte di una mostra dedicata alla pittura francese, e che erano lavori di Van Gogh, Picasso, Braque, Gauguin e Cézanne (quindi non certo delle croste), dovevano servire ad intavolare una trattativa con lo Stato venezuelano per la liberazione di un certo numero di prigionieri politici.
In un ambito relazionale, e quindi collettivo, la bellezza è un concetto dinamico, una forza vettoriale, un principio di verità in movimento. Non ci sono forme o definizioni metastoriche del bello, non esiste una “tradizione”, e nessuno può credere di fermare il tempo ipotecando una durata delle cose.
In ciò che ancora possiamo considerare realtà, esiste un’incessante ricombinazione degli elementi estetici, un flusso qualitativo tra i diversi corpi del mondo, e questo in un costante divenire della bellezza; enucleabile sì all’interno del suo stesso movimento, ma non definibile una volta per tutte.
La bellezza coincide con la verità di una comunanza (unica forma di verità che io posso avallare) quando diviene elemento propulsivo del desiderio in un determinato mondo di relazioni.
Ci si riconosce ogni volta più umani solo grazie a quelle opere dell’ingegno che legano l’immanenza (e l’imminenza) dell’esperienza umana all’apertura di nuovi orizzonti o all’affrancamento dai luoghi divenuti sterilmente comuni.
Nonostante certe mie idiosincrasie, ho trascorso delle gran belle giornate di studio nella sala letture della Biblioteca Nazionale.
Me ne stavo ore a tradurre per puro piacere i surrealisti francesi, Péret su tutti, nascondendomi dietro l’immancabile pila di dizionari, oppure passavo il tempo a scartabellare il catalogo generale cercando qualche chicca bibliografica di mio gusto.
Leggevo poesia, saggistica politica, e m’imbattevo spesso in testi che sembravano quasi intonsi, vecchie edizioni con fogli ancora in parte da tagliare, porzioni di un sapere che riaffiorava come per magia suscitandomi emozioni e innescando idee, progetti.
Il vecchio odore del pensiero. La carta che frusciava tra le dita. Il rilancio senza fine delle parole, del discorso. Rilegature splendide del mondo.
Leggevo e mi ripromettevo di fare la mia parte, creando nuovi spazi per dire l’essenziale e per ridefinire, insieme a coloro che amavo, la bellezza possibile dei giorni.
Aprire la realtà come un libro e ficcarvi dentro un’opera che non si concluda all’ultima pagina.
Alla fine di dicembre del 2005, Firenze venne imbiancata da un’inattesa nevicata. Vi abitavo già da dieci anni in pianta stabile, ma non l’avevo ancora mai vista sotto la neve.
Io e la mia compagna dell’epoca ne approfittammo subito per una lunghissima passeggiata, che ebbe inizio a Novoli, il quartiere dove vivevamo, nella zona nord della città, per poi culminare, doverosamente, a Piazzale Michelangelo.
Il panorama che si apriva davanti a noi, sotto un cielo grigio e basso, era incantevole e decisamente inusuale. Non era certo la prima volta che ammiravamo Firenze dalla terrazza del piazzale, eppure la neve accentuava il carattere “cartolinesco” della vista dall’alto e vi conferiva un che di irreale. I rumori ci giungevano sfumati, quasi come un brusio di fondo dell’esistente. L’Arno sembrava una striscia di stagnola tra i tetti innevati. E ricordo che mi fece un certo effetto il contrasto cromatico tra il bianco della neve e la cupola verde della sinagoga.
Per qualche giorno, la città fu rallentata, indotta a prendersela comoda, a vedersi sotto una luce letteralmente diversa. Tenere i piedi per terra non era più così facile. I marciapiedi stessi divenivano incerti. E camminare per Firenze risultava all’improvviso qualcosa di blandamente avventuroso.
Tra le mie tante conoscenze di quegli anni, un gran camminatore risultò essere Pete Wright, l’ex bassista di un gruppo punk anarchico inglese, i Crass, che fu mio gradito ospite a Firenze in un paio d’occasioni.
I dischi dei Crass erano stati per me delle vere e proprie esperienze di vita e mi avevano spronato, verso i vent’anni, a fare delle scelte politiche e culturali ben precise, di aperta rottura con lo status quo imperante nel mio ambiente sociale di riferimento (definibile grossolanamente come “proletariato piccolo-borghesizzato”). L’unico tatuaggio che ho voluto sulla mia pelle, all’interno dell’avambraccio destro, rappresenta non a caso il logo dei Crass. È quindi del tutto comprensibile il piacere che provai ad ospitare per qualche giorno uno dei suoi membri, pur potendo contare, dalla mia parte, su una conoscenza della lingua inglese a dir poco stentata e maccheronica.
Contrariamente a ciò che mi attendevo, Pete si presentava ormai come un distinto e allampanato signore di mezza età, sempre nerovestito e con un’ironia decisamente british. Non aveva certo abiurato le sue idee di gioventù, però le manifestava con una pacatezza e una “pulizia” verbale (non mi vengono in mente termini più adatti) che gli invidiavo molto. D’altronde, ho sempre ritenuto che la chiarezza d’intenti sia un linguaggio universale e valido pressoché in ogni angolo di mondo, se mira all’essenziale.
Una sera, rientrato con la sua compagna da una delle loro passeggiate in centro, mentre gli stavo cucinando un qualche piatto privo di carne e sicuramente molto italiano, Pete si mise a scherzare sulle condizioni in cui aveva trovato i marciapiedi fiorentini e sulla scarsa educazione civica, a suo dire, dei locali possessori di cani.
In altre parole, era rimasto negativamente colpito dalla quantità di escrementi canini riscontrabili in strada a Firenze, al punto tale da comporre per l’occasione una sorta di breve filastrocca che non esitò a cantarmi seduta stante.
Per farmi cogliere appieno certi giochi di parole, si mise poi di buzzo buono a trascriverne il testo su un pezzo di carta. Inutile aggiungere che ho conservato gelosamente fino ad oggi quel bizzarro scritto autografo:
Florence smells of dog shit
I don’t think much of it
Michelangelo
Can ‘wash and go’™
How can you breath art
When you’re living in a fart?
Quando vivevo a Firenze Nord, uno dei luoghi che ho frequentato di più in assoluto è stato senza alcun dubbio il parco delle Cascine.
A piedi, dalla mansarda in cui ho abitato per dodici anni, lo raggiungevo in circa dieci minuti costeggiando il lato più breve dell’ippodromo delle Mulina.
Vi andavo a passeggiare la domenica mattina o nei pomeriggi liberi da impegni, e per alcuni anni vi ho anche praticato jogging due o tre volte a settimana, solitamente prima del crepuscolo.
Molto spesso scendevo sulla riva dell’Arno, dalla parte di viale Washington, e arrivavo fino al piccolo piazzale dell’Indiano, dal quale poi tornavo indietro, non prima però d’aver buttato un occhio agli stralli e agli enormi piloni rossastri del ponte all’Indiano che è poco distante.
L’indiano che dà il nome a questi toponimi fiorentini è il principe Rajaram Chuttraputti, ventunenne maharaja di Kolhapur, morto mentre era in visita a Firenze il 29 novembre 1870 e cremato, come vuole la tradizione indù, alla confluenza di due corsi d’acqua, in questo caso l’Arno e il suo affluente Mugnone. La famiglia del nobile asiatico fece poi erigere in loco, nel 1876, un piccolo monumento commemorativo, che divenne ben presto meta di curiosi e che finì in pochi anni per dare l’attuale denominazione all’estremità nord-occidentale delle Cascine.
Il passeggiare è una variante qualitativa del camminare. Colui che passeggia non si subordina alla necessità di una direzione e varia la propria andatura – ossia il ritmo dei passi – in base al godimento che vuol trarre dal suo stesso moto. La qualità del camminare deriva quindi da un’erotica del movimento, da una sensibilità di natura critica verso quegli spostamenti che non sono funzionali alle attività umane subordinate.
Laddove il passeggiare rimane un’attività che non si vincola necessariamente ad uno scopo, aprendo così gli spazi al movimento possibile della creazione, il lavoro salariato trasforma invece gli spostamenti degli uomini in circolazione, ossia in un insieme di circuiti e andamenti ben precisi, dotati di regole e segnaletica vincolanti.
La circolazione non è altro che una coazione a muoversi secondo schemi eteronomi – in altre parole: un mettersi in fila per procedere con ordine lungo la “retta via”.
Asservendo l’uomo alle macchine che gestiscono la sua mobilità e riducendolo a semplice meccanismo della megamacchina globale che è la società post-industriale, la circolazione ha annichilito drasticamente la “naturalità” e la spontaneità dei movimenti umani.
Le mie passeggiate lungo la riva dell’Arno, all’interno del parco delle Cascine, hanno lenito spesso i momenti difficili della mia vita e mi hanno ricondotto ogni volta al movimento reale del mondo. Lo sciabordio del fiume mi conciliava, mi apriva al flusso dell’esistente e in qualche modo mi manteneva in uno stato permeabile e ricettivo.
I fiumi non invecchiano. I fiumi sono le braccia di un corpo che non riusciamo a contenere dentro un perimetro e che può abbracciarci teneramente o stritolarci senza pietà.
Ogni corso ha la sua foce, il suo sbocco. Nessuna diga è per sempre. L’uomo valuta spesso il confluire verso qualcosa o qualcuno come una sorta di perdita, di diminuzione, invece dovrebbe imparare a viverlo come una riconciliazione, un tentativo di compiutezza particolare all’interno di un mondo in perenne ricombinazione.
(4 – continua QUI)