Tag
Cellini, Filippo Lippi, La Madonna col Bambino e due angeli, Loggia dei Lanzi, Lucrezia Buti, Perseo, Piazza della Signoria, rogo del Savonarola
[La seconda parte del mio scritto la si può leggere QUI.]
Il problema delle nostre città è la tendenziale impossibilità degli incontri e della curiosità al di fuori delle dinamiche consumiste.
Il discorso non è poi così complicato, ma resterà incomprensibile a chi non si pone più la questione di un’intesa reale con l’Altro.
Esistono luoghi comuni vivi e luoghi comuni morti. In quelli morti non si entra mai davvero. Vi si circola, li si visita, ma ben poco circola in noi attraversandoli e quasi niente viene a visitarci durante la nostra permanenza in essi. Sono luoghi da consumare e che ci usurano all’interno di quel flusso indistinto che è il consumo.
Un tempo le città avevano bastioni e porte sorvegliate, formavano enclavi chiuse, erano quindi da svelare, indagare, conquistare palmo a palmo; oggi invece sembrano totalmente aperte, ma solo per scongiurare ogni chiusura nei confronti di un sistema sociale e di un pensiero unico che puntano su scala mondiale all’accentramento dell’umanità in poche decine di megalopoli.
Ormai gli uomini s’incrociano e basta; assai di rado s’incontrano veramente. Hanno mezzi sempre più veloci, che però li portano tutti nella stessa identica direzione. Più si affollano e più si sentono soli e spauriti. Si ritrovano forestieri in ogni luogo, spesso anche nelle proprie case. Sentono che l’incontro con la vita fallisce ogni giorno, eppure basterebbe così poco: tendere una mano senza pretendere per forza una contropartita, sorridere, condividere col proprio vicino qualcosa che squarci il grigiore generalizzato.
La paura non è solo un’idea, eppure le idee che abbiamo della paura sono spesso ancor più spaventose di essa. Sembra quasi che l’uomo nero delle favole ricompaia puntualmente ad ogni nostro incrocio fatale. Abbiamo paura come tanti bambini abbandonati nella nebbia, ma invece di prendere per mano chi ci è accanto, preferiamo pigliarlo a calci.
Senza incontri reali, l’intesa col mondo resta solo un concetto. Chi ancora si ostina a perseguirla, quest’intesa, sembra ormai il depositario di una pretesa quasi arrischiata, di un cruccio per pochi illuminati. Dentro un mondo che costringe l’uomo (ridotto anch’esso a merce) ad una circolazione sempre più frenetica tra idee puerili e semplici comunicazioni di servizio, sono in pochi a schierarsi lucidamente contro una normalità che è pura follia e ad osteggiare con forza e senza brame di potere questa soluzione finale della questione umana che è la merce.
Nessuno vi regala l’avventura. E l’avventura non si compra sui banchi del mercato. Ve la dovete inventare voi, a vostra immagine e somiglianza.
Solo quando vi sentirete amici dell’ignoto, pronti a naufragare gioiosamente nella vostra umanità, solo allora non avrete più paura ad attraversare le Colonne d’Ercole.
Ricordo una sera, appoggiato al muro laterale della Loggia dei Lanzi, a parlare e a bere pessima birra con un giovane clochard suonatore di violino. Sembrava che le nostre parole o le note di un Mozart appena accennato potessero distrarre anche il Perseo del Cellini facendogli allentare la presa della mano sinistra. Immaginavo la testa della Medusa rotolare con gran fracasso verso il centro della piazza. – Avete mai notato la somiglianza tra i volti di Perseo e della sua vittima nel capolavoro celliniano? Forse è soltanto il mio pensiero “astigmatico” ad impormi questa affinità tra le due figure mitologiche. Mi sono sempre chiesto, dentro la contesa, chi fosse il maschile e chi il femminile. E poi: in che modo hanno fatto l’amore o si sono odiati prima che lo scudo dell’efebo riflettesse lo sguardo della strega contro se stessa? Sono stati il narcisismo e la paranoia a rovinare Medusa? O è stato invece il vedersi di fronte il proprio doppio a lasciarla di sasso? Cellini amava ciò che stava plasmando. Amava la sua creatura. Ci ha impresso sopra il proprio nome in bella evidenza. E voglio credere che si sentisse un po’ Perseo e un po’ Medusa mentre governava il metallo incandescente che avrebbe tagliato la testa all’impossibile riflettendo il proprio genio.
Non molti sanno che fino alla seconda metà del Settecento, Piazza della Signoria aveva una pavimentazione fatta con mattonelle rosse imprunetine.
La si può ammirare nel quadro di un anonimo conservato presso il Museo di San Marco e che ricorda il rogo del Savonarola (era il 23 maggio 1498).
Il frate fu impiccato e bruciato al centro della piazza insieme a due confratelli poco dopo l’alba.
Nel quadro mi ha sempre intrigato quel selciato rossastro. E ho sempre cercato d’immaginare l’effetto che poteva dare in autunno, al crepuscolo, con la luce calda di ottobre.
La Loggia, ancora spoglia a quell’epoca, avrebbe poi visto accamparvisi nel 1527 i lanzichenecchi diretti a Roma, dai quali prende il nome.
Mentre il corpo di Fra Girolamo era già esanime e le fiamme lo lambivano ormai da presso, si racconta che i più esagitati tra la folla lo prendessero a sassate.
Sotto il portico degli Uffizi, mentre eravamo in fila per entrare al museo, in una tiepida mattina autunnale, ho capito che l’amavo, che dovevo amarla, e che grazie a lei avrei abbandonato i pensieri esausti e le aree dismesse della mia vita.
L’amore è la condizione sovrana della conoscenza. Ci permette di sperimentare il mondo e di costruire esperienze mediante una compenetrazione degli spazi, dei corpi, dei saperi.
Un cuore che ama può essere più duro del diamante. Giacimenti di stupore si aprono alle porte del giorno. C’è una geologia dell’amore che sfugge alle rappresentazioni e che affiora senza posa tra le crepe della civiltà creando concrezioni sorprendenti.
Intorno ai rituali e alle affinità che legano gli amanti, si coagula un’etica carnale del mondo. L’amore denuda la realtà, prende in carico le contraddizioni degli umani e le impiega come comburente in uno spazio condiviso, poetico, instabile.
Mano nella mano, apriamo sentieri che ci riportano a casa ogni volta, benché si comprenda bene che l’amore possa dimorare solo nell’infinita seduzione del movimento.
Ricordo ancora l’emozione che provai quando vidi per la prima volta La Madonna col Bambino e due angeli di Filippo Lippi, il frate licenzioso che fu maestro del Botticelli e portento pittorico del Quattrocento.
Nell’opera in questione, conservata presso il maggior museo della città, il volto femminile, di profilo, è semplicemente incantevole. L’incarnato quasi niveo e i capelli biondi raccolti in un’acconciatura di veli e perle preziose si stagliano contro lo splendido paesaggio sullo sfondo, vero quadro nel quadro.
Ogni volta che son tornato agli Uffizi ho dedicato invariabilmente dei lunghi momenti all’osservazione dell’opera, restandone sempre avvinto.
La modella della Lippina (nome popolare del quadro) è Lucrezia Buti, la monaca amata dal pittore, che fu rapita da questi durante la processione della Sacra Cintola a Prato. La cosa diede naturalmente parecchio scandalo, placatosi solo nel 1461 allorché papa Pio II sciolse entrambi dai voti.
Nel quadro, l’angelo in primo piano, rivolto verso chi guarda, è presumibilmente il piccolo Filippino Lippi, uno dei due figli della coppia, il quale doveva poi seguire le orme del padre ed entrare a bottega dal Botticelli.
La Buti fece più volte da modella per i lavori del periodo pratese. Tra gli altri, prestò le sue fattezze alla Salomè che si vede danzare in un affresco dell’abside centrale del Duomo di Prato.
Io credo che l’amore sia sempre una sorta di riconoscimento, d’improvviso coagulo – intorno ad un volto, ad un corpo – di tutte le più belle sollecitazioni che il mondo può regalarci a partire dai nostri bisogni e desideri.
Ci innamoriamo dei visi, degli occhi, delle curve di un corpo. L’identità dell’amore viene dopo, solo dopo, di norma quando intervengono l’abitudine e i sogni di durata. Possiamo anche innamorarci di forme immateriali (come sanno essere i simulacri, le parole), ma queste devono poterci toccare nell’intimo, blandirci come se fossero carezze, installandosi infine nel nostro mondo con tutto quel riecheggiare di corpi e battaglie che si portano appresso.
Solo due volte ho sentito che gli sguardi di due belle passanti mi stavano dicendo qualcosa in un modo così possente e carnale da rimbombarmi poi nelle vene per ore o addirittura per giorni.
Non capirò mai come può generarsi una tale deflagrazione. Forse un particolare stato d’animo, unito al convergere di una serie di fattori a dir poco fatale. O chissà. Addensamento subitaneo di vari elementi che ti lascia senza fiato, aperto all’eventualità di un’intesa, gli occhi nudi, esposti, senza più alcun ritegno.
Avrei dovuto fermarle, sondare il perché di quella densità nello sguardo, ma non ho sentito di avere in me parole all’altezza.
La bella mora in tailleur scuro all’altezza di San Lorenzo e la bionda incrociata sul 4 che mi portava al Poggetto sono tra le tante porte lasciate aperte in questa casa che si chiama mondo e delle quali ho ancora bisogno per accogliere le correnti d’aria che m’attraversano la vita.
Il destino è fatto di incontri. Noi scegliamo chi fermare o scansare lungo la strada. E anche gli incontri che sembrano casuali nascondono una logica. Una logica sempre da costruire, da reinventare: fondamento dell’intesa e impossibile coronamento di ogni viaggio. Il nostro andamento nel mondo dipende da questa logica. Pensare che qualcuno ci attenda. Qualcuno che potremmo incrociare da un momento all’altro.
Gironzolando per il centro, mi capitava spesso d’incocciare in una buffa figura di anarchico, dall’età indefinibile (mi son sempre chiesto quanti anni avesse Gianni), il quale se ne andava in giro immancabilmente con un bel po’ di libri e giornali sotto braccio.
Il “Brozzi”, come veniva chiamato da tutti, dal nome del sobborgo dove viveva, trascorreva buona parte del suo tempo libero distribuendo le pubblicazioni del movimento anarchico a gran parte delle librerie fiorentine.
Cercava sempre di propinarmi qualcosa, il povero Brozzi, soprattutto l’immancabile ultimo numero del settimanale Umanità Nova – giornalucolo ormai al limite della decenza e che probabilmente avrebbe fatto inorridire persino Errico Malatesta, già fondatore della testata negli anni Venti, quand’era invece un quotidiano con tirature anche di 40.000-50.000 copie!
Era commovente Gianni. Si portava in giro la sua idea di libertà e niente riusciva a smontarlo, niente sembrava frenarlo. Era un pezzo di pane, davvero un cuore senza fondo. Aveva i suoi bei problemi, il caro Brozzi, ma faceva in modo che non intaccassero quella sua coazione a muoversi, a fare da ponte, a sentirsi parte in un progetto di palingenesi per il quale non so proprio quanti chilometri macinasse ogni settimana.
(3 – continua QUI)