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Un estratto dal capitolo introduttivo del mio ultimo libro: Il corpo esplicito (ed. Paginauno, maggio 2017). Le opere che illustrano il post sono di Nopi Fountoukidou.

 

 

Un libro che affronti la materia dell’amore, sia esso saggistico o letterario, è sempre, almeno in parte, la testimonianza sulla miseria di una cultura che ha bisogno di un’opera del genere per organizzare teoricamente o ricomporre simbolicamente i vari tasselli dell’esperienza amorosa. Una tale miseria emerge problematizzata anche dalle pagine di questo libro – appartenendo essa, beninteso, pure all’autore e al suo ambiente di riferimento – e va ricondotta, in ogni caso, alle condizioni reali dei rapporti affettivi tra gli uomini.
Il fatto tipicamente umano di scrivere e fissare attraverso la scrittura i particolari rilevanti dell’esperienza, presuppone sempre una generalità (di amanti, lettori, complici potenziali), alla quale l’autore rivendica in qualche modo l’appartenenza, testimoniando attraverso tale adesione, in modo indiretto, la propria partecipazione al possibile dell’amore.
Il desiderio di riprodursi e perpetuare la vita, agente in gran parte degli umani, viene surrogato dal desiderio di riprodursi e perpetuarsi per mezzo del linguaggio. C’è quindi del sesso in ogni parola, una tumescenza del desiderio in ogni concetto. Essi sono l’indice dell’esterno, dell’altro, e l’esterno in questione non è soltanto il vagheggiare un amore che dia senso all’interno – al sé – ma è anzitutto da leggersi come la pelle di un amore sempre possibile e che in niente si vuole separato dal suo pensiero.
Scrivere, vuol dire farsi eco di ciò che non può smettere di amare. Proprio a tal fine, occorre che si porti all’incessante parola dell’amore la decisione, la potenza di ogni amore intravisto, possibile, impossibile: rendere cioè sensibile, attraverso l’interminabile affermazione o narrazione del corpo esplicito, l’approccio del comune, dell’affetto condiviso, con cui l’uomo è rinviato costantemente al mondo – al mondo inteso come insieme di relazioni e progetti.
Nella parola poetica, si esprime il fatto che gli esseri amino. Nella narrazione degli affetti umani, si afferma altresì il compito paradossale delle parole, ossia il loro impiego per dar voce al corpo che può nascere o che è già nato realmente nella prossimità tra scrivente e lettori. In realtà, il corpo amoroso non scriverebbe, o non avrebbe alcun bisogno di scrivere, se si trovasse impegnato carnalmente e senza posa in questa prossimità.
Ogni testo d’amore, o sull’amore, è scritto per dare un qualche rilancio all’esperienza amorosa. Ciò avviene perché il corpo dell’uomo è delimitato dalla pelle, dalla morte, mentre il corpo dell’amore è interminabile, incessante e mai dicibile una volta per tutte. Quest’apparente contraddizione, è in realtà il luogo dell’umano in cui nascono tutti i tentativi per creare una continuità tra vita e vita, tra vivente e vivente, ivi compreso il tentativo costituito dall’amore stesso.
In direzione fintamente opposta, ogni testo che abbia a che fare con l’odio, è scritto invece per esorcizzare o dare un senso a un qualche deficit d’amore. – Il cinismo, assai spesso, è una maschera davvero ben portata, ma che non sempre riesce a celare, a un occhio attento, le speranze ancora operanti nel profondo.

 

 

Amare e lasciarsi amare sono moti, processi che implicano un denudamento del corpo, della mente. E non potrebbe essere altrimenti. Nello slancio amoroso, si afferma l’esterno, il fuori, lo spazio dove accade il contatto tra i corpi, tra le menti. Si risale così alla superficie dell’umano – all’origine del comune, della comunanza – dove gli eventi non avvengono solo per i corpi coinvolti nell’immediato, ma anche per i corpi passati, presenti e futuri dell’amore. Nello slancio amoroso, il corpo e la mente ridiventano la materia vivente che è e resta alla base di ogni immagine dell’affetto. È come se il corpo e la mente ritrovassero ogni volta la propria ‘carne’ toccando l’altro e facendosi toccare dal corpo, dai pensieri dell’altro. L’immagine dell’amore cede così il passo ai corpi amorosi, i quali non fanno altro che passare dall’interpretazione delle loro possibili intese alla costruzione reale di un contatto, di un’alleanza ‘toccante’ tra di essi.
Il corpo esplicito è il corpo di cui si parla, si blatera, si rappresenta senza veli la potenza o l’infamia. Con esso, si estetizza il mondo o lo si ‘perverte’. È il corpo esposto e reso disponibile alla visione, al tocco, allo scambio, e ciò senza mezzi termini, potentemente, affinché si possa aderire in modo ‘assoluto’ al suo godimento (al godimento che possiamo trarne accedendovi tramite una rappresentazione) e nonostante l’indisponibilità eventuale di gran parte del corpo sociale.
Il corpo esplicito è anche la libertà violenta con cui esso viene comunicato e per la quale si condensano, in parole o immagini, la decisione carnale e l’accettazione senza compromessi della propria presenza al mondo. Una simile ‘libertà’ è l’aspetto più evidente, ma spesso anche il meno autentico, di ciò che si potrebbe definire volontà d’amore. È un concentrato di desideri, emozioni e luoghi comuni del pensiero in cui reperire o credere di poter costruire una ‘verità’, una compiutezza degli affetti, ma il cui significato è puntualmente sospeso dal suo stesso compimento e dalla conseguente, continua necessità di eludere il fallimento di ogni tentata padronanza sull’amore.
L’esperienza amorosa si può narrare, ricordare, esaltare, però non la si può dire senza inserirvi un quantum di approssimazione o di mistificazione. Questa mancanza conduce l’uomo – con o senza sensi di colpa – a una continua esposizione dei corpi, delle parole, e quindi a dar vita al movimento storico della ricerca, della bellezza, come pure, inevitabilmente, a far propria quella nota patetica che nasce dalla reiterazione stessa del tentativo. (…)