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[ I testi che seguono sono tratti dall’appendice del mio ultimo libro: Il corpo esplicito, edizioni Paginauno, maggio 2017. Pur essendo un saggio, il libro termina infatti con una parte più “letteraria”, in cui introduco (arbitrariamente?) alcuni elementi autobiografici, con l’intenzione evidente di ribadire in altro modo alcuni dei concetti essenziali dell’opera. Le foto – realizzate da M. Cargnel – sono prese dal blog Cianuro emotivo di Marianna Carlotta Lyuba Pozzer, cui vanno i miei ringraziamenti per avermene permesso l’utilizzo.]

 

 

Ci sono verità che non hanno bisogno di costruzioni teoriche per essere trasmesse, comunicate; verità che non nascono dentro il pensiero, bensì nella presenza immediata del vivente. Attraverso i sensi, noi apprendiamo l’essenziale. Percorrendo lo spazio del sensibile, noi costruiamo la realtà e scopriamo l’evidenza della verità, della concretezza: il nostro corpo è caldo, l’erba è verde, gli uccelli cinguettano, l’acqua cola tra le dita… Su questo spazio e su quest’evidenza, noi ricamiamo poi tutto il resto allontanandoci sempre più dall’immediatezza e dall’essenziale. Lo facciamo per ‘salvarci’, per sopportare la coscienza della morte. Costruiamo castelli in aria per ostacolare il vento della caducità e per guadagnare una durata, ma così facendo finiamo per introdurre la morte un po’ ovunque.

Io amo te e tu ami me. In quest’affinità di potenziale che ci trasporta, l’amore è lo spazio che amiamo e che mettiamo in comune facendolo diventare il nostro territorio – uno spazio fatto di giardini, steppe, palazzi labirintici, vicoli ciechi dove finalmente vediamo i nostri limiti. Ma l’amore è anche lo spazio che ci ama a sua volta – sì, uno spazio che ama noi, che ama il nostro movimento – venendo a mancare o estendendosi a dismisura senza che noi si riesca a mapparlo, a rinchiuderlo in una cartografia domestica, pur attraversandolo con il rigore di chi si vuole spensierato e senza causa.
Nel territorio dell’amore, la meta non è un progetto, non è il ritorno a una mitica origine. La meta è l’andamento stesso. Anzi, è il ritmo, il ritmo dei rispettivi andamenti che va accordandoci affettuosamente.

 

 

La morte non ha niente di gratuito. Ciò che è ineluttabile non può essere gratuito. La morte è il prezzo della vita. Ed è ciò che ci induce a dare un valore assoluto alla vita e a considerare gli eventuali godimenti come una cauzione, un compenso per ciò che ci appartiene a tempo determinato (vale a dire: soprattutto il corpo). A tal proposito, ci siamo inventati lo spirito, l’anima, la Storia, proprio per fregare questi vincoli temporali e per investire (o tesaurizzare) ogni nostra attività scampata alla morte. Abbiamo costruito sistemi di pensiero per legare teoricamente tutti i frammenti delle nostre esistenze, tutte le tappe dei nostri percorsi. Facciamo costantemente la verifica dei valori sociali per scambiare particole di morte contro frammenti di vita. In tal modo, ci siamo ridotti ad essere i migliori pusher dei nostri stessi limiti.

Se l’amore carnale non genera una buona dose di gioia – al di là del mero piacere fisico – allora non è vero amore. La gioia accresce la nostra potenza, la nostra capacità di stare al mondo in armonia con l’esistente. È questo il discrimine rispetto agli affetti consueti che ci legano al vivente.
In realtà, l’adeguatezza dell’affettuosità carnale non è passibile di misurazione, non è quantificabile – anzi, sovente è quasi indicibile – eppure noi avvertiamo costantemente e con nettezza il fatto di poterci dispiegare insieme all’altro in un territorio esaltante, mediante un movimento che colma tutto lo spazio a disposizione, e che ci spalanca l’ignoto, l’avventura. E che cos’è l’ignoto, per noi civilizzati, se non l’insieme di tutte le possibilità che ci restituiscono all’apertura del corpo, del gioco, del possibile?
Accrescere la propria potenza significa disporsi sempre più a essere affetti, nonché a donare affetto dentro le relazioni col mondo – e a farlo non per dovere, non per mera necessità, ma nella prospettiva della gioia, dell’esultanza.
Non ho mai capito a cosa serva il perdersi nel pessimismo o in forme misantropiche di nichilismo. Non riesco proprio a comprendere la ‘ragion cinica’ di chi sputa sull’amore. È assodato che si muoia e che tutti i nostri sforzi s’infrangano contro i limiti biologici della specie. Motivo in più per far sì che i limiti sociali vengano rintuzzati o annientati, almeno in parte, e almeno a sprazzi, da una pratica gioiosa e affettuosa tra i viventi. Tutti vorrebbero essere amati, ma non a tutti interessa manifestare o sviluppare la propria amabilità nei rapporti con gli altri. In molti amano per dimenticare la morte, non per morire pieni di vita, e così la loro vita si riempie di dimenticanze e di una fitta rete di responsabilità sociali per meglio dimenticare. Il paradosso, è che ci si mette da parte – relegandosi in una parte del mondo, del pensiero, degli affetti – perché si ha una fottuta paura del tutto. Ma abbiamo forse qualcosa da perdere? Nascendo, abbiamo già perso la vita: siamo solo un passaggio, un ponte lanciato attraverso la continuità della materia vivente. Niente può redimerci e niente saprà colmarci, se non l’esperienza di essere già perfetti, qui, ora. Questo è il ‘tutto’. Questo è il fondamento comune di ciò che abbiamo a portata di mano, di sesso, di affetto.