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Alcuni testi estratti da Se questo si chiama amore, io non mi chiamo in alcun modo  (Ab imis, 2018). Le foto della gallery che accompagna il post sono di Cecil B.

 

 

Tra queste pagine senz’ombra, abbagliate dal libro aperto che sei, ridotte all’interro­gazione del desiderio, la parole azzardano una sufficienza, un destino puerile.
Crediamo d’installarci nell’opera, invece le parole non frenano il movimento e si porta­no dietro una rassegnazione che ci fa insor­gere contro ogni vanagloria.

Vorrei avere un’erezione ai confini della tua intelligenza e raccontarti di come il sangue aggiusti la bellezza.
Escogitare una semplicità, dirti l’avvenenza dell’illeggibile e del patto che vado strin­gendo con la tua presenza.

La scrittura è come una passante che si fer­mi a interrogarmi e che si stabilisca per sempre nell’interrogazione.
Qualsiasi cosa io ne faccia, troverà sempre il modo di mettermi una mano sul cazzo o di voltarmi le spalle.
In entrambi i casi, bellezza e verità mi ver­ranno incontro solo nell’eversione gentile del suo stesso movimento.
A volte, basta solo un sorriso per rilanciare la domanda e infrangere una mancanza. Ma la domanda rimane senza memoria e non cono­sce sollievo.

*

Le mie mani toccano la pietra
e colgono l’ottusa bontà della materia.
Si vive, si muore.
Come può intristirci la
volgarità delle cose
quando siamo di quelli che cercano la
luna anche in pieno giorno?

*

Dovrei contraddire il mio respiro e
allontanarmi dalle tue labbra.
Ma come potrei accettare la ridicola bassezza dell’uomo che si riduce a puntaspilli, a sbirro della poesia,
a facile guardiano di specchi?
La scrittura mi venne in dono come una ferita e il mio solo conforto, oggi, è l’impossibile cicatrice.
– Voce, fica: tumulto ironico della carità.