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Due “incresciose” poesie tratte dal mio recente Se questo si chiama amore, io non mi chiamo in alcun modo  (Ab imis, 2018), libro che è acquistabile su <Lulu> <Amazon> e <Kindle Store>. Poesia itifallica, poesia che testimonia e tenta di rilanciare (pateticamente) il godimento; niente di più, ma anche niente di meno. Le foto, dall’alto in basso, sono di Steen Larsen, Larry Clark e Bernard Faucon.

 

 

In un modo tutto nostro,
siamo andati in culo anche alla poesia.

Non era necessario,
ma è stato bello.

E che cos’è il bello, se non
questa caduta dell’eternità
(e di ogni pretesa)
dentro la stretta di
corpi ammutinati, intelligenti,
sempre pronti a
scoparsi anche le parole
e a non darla vinta al numero, alla
durata, alla costernazione di vivere?

In tutto questo, beninteso,
la metafisica c’entra assai poco:

l’amore, mia cara, è leccarti la fica con
appena un sovrappiù di poesia,
e il corpo di ognuno, da sempre, resta la vera critica di
tutta la possibile materia dei nostri amori.

 

 

*

Scrivo questa poesia perché ho il
cazzo duro e tu non ci sei.

I poeti laureati mi perdoneranno, se
faccio vincere il sangue che non conosce padroni.

Ho voglia di leccarti la fica
e riposare all’ombra del tuo orgasmo,
una gran voglia di strizzare quelle
tette imperiali, nietzschiane, sinfoniche.

Provo allora a ricordare il tuo odore,
a rievocare la caduta in te, con te,
ma finisco solo per tormentarmi invano tra le cime innevate della mia carne.

La perdita della qualità, così evidente a tutti i livelli del linguaggio poetico, negli oggetti che esso loda e rappresenta, non fa che mettere in bella copia il carattere dispotico delle separazioni reali che impediscono il godimento.