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Sere così. Dove ti accorgi che l’universo contiene infiniti battiti e forse una grandiosa carità, un amore facinoroso, invadente.

Poco dopo il tramonto, a neanche venti metri dall’uscio di casa, noto un animale che si aggira furtivo. Penso subito a un gatto. Invece si tratta di una piccola volpe, che scappa via non appena tento di avvicinarla. Giunta però a distanza di sicurezza, si mette lì seduta e mi osserva per un bel po’.
Nel frattempo, una coppia di civette – la stessa che ha nidificato nella porzione di casolare in abbandono – comincia a manifestare il proprio nervosismo allorché uno dei miei gatti sale sul tetto. Gridano tutto il loro disappunto cercando probabilmente di inibire il piccolo felino, ma quest’ultimo non sembra affatto interessato a loro, né tanto meno impressionato dalle loro intemperanze.
Osservo tutto questo, compreso il cielo, le chiome degli ulivi che assecondano la brezza serale, e mi lascio invadere dalla sensazione che la morte sia solo una smorfia della materia, uno sberleffo inventato dall’universo per rimettere in sesto tutti quei suoi marchingegni che si vanno ingolfando. La morte esiste, ma non uccide l’emergenza della gioia.
In momenti simili, che sanno essere di una tenerezza disarmante, ti vorrei qui, accanto a me, a goderci l’esistente che ride della morte, e a tenerti le mani, a carezzarti le gambe, a fare l’amore in un modo così veemente da zittire pure le civette!
Nella luce residua del giorno, la tua testolina bionda terrebbe a bada tutte le ombre del mondo e mi farebbe sentire al di qua di ogni affanno.
Tutto questo – il desiderio, le trame dei viventi, la bellezza che ti devo – mi regala un’improvvisa e inconsueta commozione. Mi ritrovo allora, nello stesso istante, con le lacrime agli occhi e col cazzo che mi viene duro, arrivando a sentirmi in consonanza con ogni fermento, con ogni lievito dell’universo, anche grazie a te, soprattutto grazie a te, per il tramite di quella poesia della materia che ancora ci ostiniamo a chiamare amore.

 

 

Tutto questo ribollire di voglie che mi fai venire in testa, al basso ventre, fra le parole. La smania di cacciartelo in ogni buco. La voglia di venirti in bocca. La mancanza di parsimonia del mio cazzo. Tutta questa fiumana di sesso che ho per compagna di poesia quando ti penso. Tutta quella sabbia di pensieri che metto fra gli ingranaggi del destino. Il vento. I tramonti. La poesia del tuo culo. Le bestie feroci del desiderio. Il mondo che inventiamo. Le scorpacciate d’amore. La cioccolata. I gatti.
Ecco. Sono tuo. Sono soltanto tuo. Dimmi qualcosa. Apriti. Chiavami. Sorridimi con la tua intelligenza più animale. Scopami come se fossi l’ultimo poeta sulla terra. Dimmi qualcosa. Fa’ di me il tuo libro aperto. Strusciami la fica contro la barba. Soffoca la mia boria di maschio fra le tue cosce. Pisciami in bocca. Fammelo venire duro come una sentenza inappellabile. Apriti. Chiavami. Fammi sborrare nella tua testa. Il territorio dell’amore è un campo minato pieno di rose. Vieni a saltare con me. Veniamo in faccia a quella troia della morte. Concediamoci una pretesa più forte del nostro stesso amore. Nessuno potrà toccarci e più niente potrà deluderci. Solo l’esplosione. Solo l’esplosione avrà senso e sarà origine.

 

Nove luglio duemiladiciotto. Le foto, dall’alto in basso, sono di: Laura MakabreskuNastya Kaletkina, Rafael Navarro e Emi Annrakuji. I testi, con alcune lievissime varianti, sono confluiti in Il saper amore.