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Inutile attardarsi su ciò che è stato, sugli abissi delle nostre storie personali. Il passato remoto delle nostre vite – l’infanzia, le prime esperienze capitali – va tenuto, contenuto, ma non deve mai trattenerci. Per quale motivo sprecare delle immani risorse psichiche nel tentativo di colmare i vuoti e le mancanze che hanno costellato il nostro bisogno di vita e che risalgono a una fase di pre-coscienza? Le ferite resteranno sempre relative, mai assolute, e bisogna viverle come altrettanti solchi lungo i quali seminare il nuovo, l’ulteriore.
Bisogna reinventare il destino, l’avventura, e smettere di vedere nella nascita un trauma e nell’infanzia unicamente un ricettacolo di ombre, tranelli o tasselli fuori posto. Incolpare i nostri genitori per ciò è stato o poteva essere, non ha più senso se impariamo ad amare anche le nostre peggiori esperienze. Il sangue delle loro mancanze è passato in noi, ma il cuore rimane il nostro, le vene sono le nostre. Escogitiamo quindi una trasfusione di desideri e apriamoci ai nostri tanti possibili, lasciando finalmente inerte la materia delle aspettative, dei rimpianti! Siamo venuti al mondo per fare esperienza della notte e delle sue molteplici fosforescenze, non per lamentarci di una perdita, di uno sradicamento, di una caduta originaria. Non siamo fatti per il favolistico “c’era una volta” o per il bretoniano “ci sarà una volta” [André Breton, Il y aura une fois, in: “Le Surréalisme au service de la révolution”, n. 1, juillet 1930, p. 2], quanto piuttosto per un c’è, qui, ora, una volta, più volte, facendo in modo – criticamente, poeticamente – che la nostra possa essere sempre una prima volta.

 

 

Dobbiamo inventare, o far affiorare dentro la nostra mente, un modo di pensare quantistico. I pensieri sono collegati dal loro movimento, dalle loro forme d’onda, e non necessariamente (o non soltanto) da un processo di causa-effetto. Costituiscono incessantemente un’ampia eventualità, un numero n di interazioni possibili (ai confini della scala di Planck), e vengono fissati, emergendo in una determinata situazione “locale”, solo quando collassa il loro vettore, il loro pacchetto di movimenti.
Non si smette mai di pensare. In altre parole, non si smette mai di tagliare e stoccare blocchi di energia neuronale dentro la rete delle connessioni cerebrali.
Sorge però una questione: nel momento del collasso, del taglio dei pacchetti neuronali, quanto è casuale la loro posizione? Come avviene la loro indicizzazione nella memoria? Quanto e in cosa rimane prevedibile il movimento che li porta? In altre parole: quanto surrealismo c’è, di default, nella mente umana?

 

 

Un salto nel pieno. La vita, la morte, il pensiero: tutto quel che ci porta e ci ricombina va visto o architettato come un salto nel pieno. L’esistente è una “gelatina” affascinante, irrimediabile. Le energie del cosmo si addensano senza posa e i loro coaguli, creando un’infinita rete di amicizia e tensione tra gli elementi, saltano da un concatenamento all’altro.
Da un punto di vista quantistico – che è un insieme infinito di punti di vista, un divenire di tutti i divenire possibili in un dato incrocio dei concatenamenti materiali –, la presenza del vivente è un’insurrezione gentile, un picco nella vanagloria ironica della materia.
(S’insorge ogni volta per configurare una pienezza e vivere compiutamente il miglior incrocio possibile dei propri concatenamenti. L’ironia è il movimento che ti approssima all’eterno rumore delle particelle, mancandoti sempre).
Secondo Gilles Deleuze: «Tutti sognano spesso di ricominciare o ricominciare da zero; ma hanno anche paura del dove arriveranno, del punto finale. Pensano in termini d’avvenire o di passato, ma il passato, e anche l’avvenire, è storia. Ciò che conta, invece, è il divenire: divenire-rivoluzionario, e non l’avvenire o il passato della rivoluzione. (…) Il divenire, il movimento, la velocità, il turbine, si trovano in mezzo. Il mezzo non è una media, è invece un eccesso. Le cose crescono nel mezzo. (…) E il centro, non vuol dire affatto essere nel proprio tempo, essere del proprio tempo, essere storico; al contrario. È ciò per cui i tempi più diversi comunicano. Non è né lo storico, né l’eterno, ma l’intempestivo» [Carmelo Bene, Gilles Deleuze, Sovrapposizioni, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 73].
Ora, volersi intempestivi, abitare gli interstizi fra storico ed eterno, significa rifondare il proprio rapporto con la stabilità, con l’inerzia prodotta dai nostri rapporti con le cose. Il piano divino non è mai stato perfetto, neanche nei momenti migliori della religione, mentre la cosiddetta fortuna, per nostra ventura, non si è mai risolta in un semplice lancio di dadi, ma ha sempre implicato anche l’ideazione, la costruzione (o la distruzione) dei dadi stessi.
I concetti di assoluto e nulla non ci soccorrono più. L’Io è affollato. I suoi puntelli sono in rovina. Nessuna fede, nessuna illusione. Ciò nondimeno, il desiderio abbraccia ancora i diversi frammenti dell’affetto e li coniuga talvolta in nuove consapevolezze, in nuovi andamenti: volontà, desiderio, uniti nell’immanenza del piacere creativo, nell’immanenza della gratuità che foggia il godimento. D’altronde, come dice Sade, «la natura non può aver dato al fluido che scorre nelle nostre reni un’importanza tale da corrucciarsi per il percorso che ci piaccia far subire a questo liquore!» [D.A.F. de Sade, Français, encore un effort… si vous voulez être républicains, Fourbis, Paris, 1988, p. 45].

 

{ Testo tratto da un mio grosso saggio in divenire. Immagini: Gundula Blumi. }

 

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