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Tu e il sole lento dell’estate che sequestra il paesaggio. Tu e le cosce ancor bagnate di poesia. Tu e l’ascesa al Monte Carmelo dei miei desideri. Tu e le scorie oscene di un pensiero all’altezza d’ogni conflitto. Tu e gli occhi che regali alla meraviglia. Tu e la bellezza bambina delle pozzanghere in cui s’impiastricciano i sogni. Tu e il culo poco dialettico della tua intelligenza. Tu e le storie che ci racconteremo, un giorno, quando avremo dimenticato gioiosamente ogni nostra origine.
Abbiamo risolto il nostro disincanto nell’immondizia poetica e calato le mutande anche alla parola più riottosa. Ora, nessuno potrà dirci cosa dover fare di queste zolle feconde dentro la testa.
Ti prendo per i fianchi e ti bacio con passione, fino alla morte di ogni principio. Il bacio è riparazione, è rapinoso approdo della fiducia. Sopisce l’universo. Smarrisce i confini. Costruisce un ponte senza tempo fra le stelle e il sesso.
L’altro lato della comprensione è costituito dall’impazienza di voler avere dentro di sé, nella materialità dell’intesa (e non nella modalità della rappresentazione), ciò che la carnalità della propria presenza accoglie come senso, concetto e sconfinamento della gioia.
Non si deve di certo rimarcare cosa ci sia da sapere in un corpo che è già stato appreso. In un corpo determinato, c’è solo da vivere il movimento stesso che stratifica (e sommuove continuamente) i diversi piani dell’intesa tra quel corpo e l’assoluto cosmo.
Se ti tocco il culo, vengo meno alla modalità (e alla sicurezza) della rappresentazione per pormi sul terreno di un mondo in cui la tua carne mi orienta verso il lato più avventuroso del nostro pensiero.
I tuoi seni nudi mi ridono in faccia, ed io, per continuare a saperti, accolgo tutta l’insufficienza di un mondo che è stato il mio.
Laureana Cilento, 10 novembre 2019. Opera di Hans Bellmer (Étreintes, 1974).
Direi bello, Carmine.
Direi finalmente, Carmine.
Forse.
Finalmente?