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L’inverno è alle porte e gioca a scassinare i miei pensieri con furiosi grimaldelli di vento. Cerco allora di pensare solo a te e m’imbarco in un desiderio aperto a ogni naufragio poetico.

Nel pensiero occidentale del XXI secolo, dopo la sbornia ideologica del Novecento, si dà ormai più importanza all’inseminazione che al seme, giungendo contraddittoriamente a pregare l’assenza di Dio fino a riderne senza più alcuno sprezzo del patetico.
L’albero della conoscenza, attaccato da ogni lato dai rampicanti dello scetticismo e della disillusione, ha perso memoria dei concatenamenti indispensabili tra radici e frutti, e se ne sta rachitico, in mezzo a una miriade di saperi frammentari, come risultante di un mondo che gestisce la frammentazione e la perdita di senso inventandosi ogni volta un post-qualcosa blandamente terapeutico.
Laddove ieri gli -ismi permettevano la gestione autoritaria dei saperi, oggi abbiamo un mondo che si aggancia ai propri postumi politico-culturali occultandone le implicazioni dispotiche grazie alla liberalizzazione democratica delle tecnologie.
Per intanto, almeno da Bataille in poi, se mi costringo a pensare alla morte, e soprattutto alla mia stessa morte, giungo a ridere di tutto, anche della morte degli altri, ma senza disgusto, senza disprezzo, calandomi in ogni morte come se mi spogliassi nudo di fronte alla più grande eventualità di vita.

Alla fine, avrò almeno appreso che dire la propria vita, qualunque essa sia, e in qualunque modo poetico la si possa esprimere, significa sempre farne un linguaggio che rilancia sì il desiderio, ma che mai e poi mai potrà dettare meccanicamente (o impunemente) l’affetto possibile.

Io e te, nell’affetto che accomuna, siamo due volte i molti che eravamo e che saremo.

 

13 novembre 2019. Foto: Hans Breder, Body/Sculpture, 1972.