Alla fin fine, io che cosa so? A quale conoscenza appartengo? Quali saperi mi terrebbero dentro una parvenza di fissità?
Giungere alla conclusione che non sappiamo niente di definitivo e che l’unica nostra tradizione è costituita dalle pietre in cui inciampiamo lungo il percorso.
Ma ben venga l’inciampo, l’affrontamento degli ostacoli, le carambole poco dialettiche, se tutto questo ci porta a realizzare la fiducia.
Il frammento di un’esperienza – come pure il dirsi, il contraddirsi della frammentazione stessa – ha senso solo in un’approssimazione infinita, in una rottura con le pastoie dell’Essere, in una sollevazione reale contro il sonno della poesia. In caso contrario, avremmo unicamente un progressivo moto di disgregazione e distanziamento fra i diversi carichi di desiderio.
Sempre e solo questo. Una fenice che t’invita all’incendio. Uno squarcio. Un approssimarsi ironico dell’assoluto.
Avemmo quei giorni in cui ci accadde l’infinito.
Ogni gesto sembrava compiuto. Ogni sorriso anticipava un corpo irrimediabile.
Poi, in piena poesia, ci facemmo separare dalla nostra stessa soddisfazione.
Entrando nella vita dell’altro,
ci siamo dati in pasto a troppe morti,
a troppe parole,
e la carne amica non è stata sufficiente
a nascondere la stanchezza degli occhi.
E ora? Chi lo dice all’ulivo che il suo olio non è mai stato santo?
Una piccola devozione dovrà pur riemergere fra le pieghe più semplici del corpo disertore.
Laureana Cilento, 21-23 luglio MMXX. Opera di Cyril Namiech.
Io a quale conoscenza appartengo? Sunto perfetto di tutto quanto sia così relativo