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I testi che seguono sono dedicati a Goliarda Sapienza, la cui “Arte della gioia” ha ispirato parte delle mie riflessioni, ma soprattutto a Silvia Fera, la quale mi ha spronato a leggere il libro di cui sopra (che sonnecchiava da anni nella mia biblioteca) e alla quale sono indirizzati, in particolare, i due brevi componimenti in versi che inframezzano il tutto. La fotografia è di Nobuyoshi Araki.

NobuyoshiAraki

Quando pianti un albero o trovi un cucciolo per strada, il suicidio si allontana, la morte si mette comoda a guardarti, e tu puoi startene ad ammirare l’albero che cresce, il gatto che ti occupa i divani, le tue rughe sempre più numerose che sorridono al mondo.
Si vive per costruire dei momenti in cui la tua stessa morte possa in qualche modo morire senza trascinarti con sé; costruire una morte che impari ad attendere e che non ossessioni le tue attese.
Una tale costruzione non è la ricerca di un disamore, di un distacco, né il conseguimento di una fantomatica “pace dei sensi”, bensì la consapevolezza di ciò che si compie andando incontro, ancora e sempre, a ogni età, in ogni gioia, con ogni paura, a tutti i possibili della propria potenza di vivente irripetibile.
Io pianto alberi e metto in connessione col mondo una parte della mia potenza. La trasmetto. La restituisco. Assaporo l’intensità che mi giunge dalle risposte che mi dà il mondo e ne faccio un rilancio di vita, anche quando so bene che non potrò mai comprenderle del tutto, anche quando riconosco che le sto già tradendo con una mia nuova interrogazione.
La potenza viene dalla storia del mio sangue e dal fatto che giungo a perdonarlo senza sentire la necessità di un’espiazione. Viene a bussare al mio corpo e mi trova pronto a spogliarmi di ogni risentimento, di ogni morte inutile.
Non è stato facile, non è stato per niente facile, ma la pratica ostinata di quella bellezza sempre possibile, insieme all’Altro che riconoscevo e che mi riconosceva, anche se al buio, anche se con l’acqua alla gola, mi ha tolto dall’imbarazzo di asservirmi a un’idea di salvezza pateticamente singolare.
La bellezza: quest’affetto per l’effimero volto della soddisfazione che io dico così malamente e che mi tira per il braccio invitandomi a fregare ogni mio tentativo di stabilità; questa cosa che mette in comune stelle e fango, amore e devastazione, e che niente potrà mai fare contro la mia voglia di trovare una tenerezza persino nelle pietre in cui inciampo.

I fiori del melo,
dietro i miei occhi,
ti sposano alle radici del vento.

Per colpa di Eros, Narciso si ammira nel suo piccolo stagno e viene invaso dalla rappresentazione della propria bellezza. Il demone erotico gl’impone la condanna di tutti i mancati amori e lo sanziona facendo della sua umanità il tradimento della leggerezza; la gravità incanta il pensiero e lo affonda in un circolo vizioso. Narciso finisce così per annegarsi perché il suo desiderio non ha ali, non ha la rapacità senza peccato della poiana. Il peso della vita lo trascina verso le profondità. Non riesce a danzare, non riesce a fluttuare, senza darsi pensiero, alla superficie del bello che pur si riconosce, quindi affoga, sceglie d’affogarsi per poter dare un senso definitivo alle mancanze del desiderio.
(Eros, originariamente, era adorato a Tespie, in Beozia, sotto forma di un masso appena sgrossato. Ciò ci dice che il suo peso è immane; neanche gli dèi, infatti, riescono a governarlo, persino gli dèi affondano o devono trasformarsi – sovente in animali, in carne senza colpa – per affrontarne il carico).
Ora, ognuno di noi si porta dietro la gravità erotica di Narciso. La cosa è ineliminabile. Il demone ci possiede tutte le volte che desideriamo una mente, una carne che non sia la nostra o che prendiamo come riflesso della nostra. Beninteso, sappiamo anche che ciò non è necessariamente un male. Lo diventa soltanto quando nel nostro piccolo stagno, invece d’affogare le mancanze e le ipocrisie del nostro affetto, noi finiamo per annegare gli altri. È solo qui, infatti, che nasce il narcisismo davvero deleterio, ossia quel delitto di lesa tenerezza derivante da un desiderio autistico teso ad asservire l’Altro facendone un mero supporto per le nostre mancanze.

Non farò l’errore di
volerti acqua

ove sei pietra.

Non amarmi,
onora il tuo sangue,
àmati con me.

Il tempo è la vendetta di una materia tradita dalle sue stesse trasformazioni e che ci incita continuamente al disinnesco delle domande.
Forse, anziché cercare a tutti i costi una risposta, sarebbe meglio sfrondare le domande che ci portiamo dentro. Forse, e dico forse, anziché aggrapparsi a un qualche fondamento, a un qualche effimero perché, sarebbe molto più bello dondolarsi sull’abisso mano nella mano insieme a te.
L’ignoto non esiste, se riesci a cogliere la voce di quel filo d’erba che hai evitato di calpestare in un moto di tenace carità.
Una lotta sorda contro la speranza: ecco cos’è la mia vita. Un pegno di poesia. Una carezza. Un prendersi cura persino della morte che mi ucciderà.

[ Laureana Cilento, 16-19 agosto 2022 ]

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