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amor frattale, Guy Bourdin, Jan Saudek, Katsushika Hokusai, la conquista della tenerezza, la parte della gioia, poliamore, Robert Longo, Silvia Fera
[ Silvia Fera ]
Dal buco della bocca esce
una goccia di te – lenta, densa
via via ingrandisce.
L’Io immanente si dissolve
tra le dita oscene del mio
plenilunio di sangue.
La mia metafica – le tue metaparole
han preso a morsi l’antimateria,
cosmo liquido m’è colato tra le gambe.
Vieni! E poi stringimi!
Ancora – Baciami!
Mi fai viva – sconvolta – bagnata – insonne.
La luce dell’alba strilla
alla finestra. A domani
le stelle e i turbamenti.
[ Carmine Mangone ]
Sono preso, stordito, arato, infiorato. Non esco più dal tuo interno, non avverto più la facilità o il mediocre del mondo, essendo la tua velocità di cattura ben superiore a quella della mia stessa poesia.
Implodo insieme alle stelle che collassano e mi faccio avverbio di voluttà dentro la tua bocca. Concentro la mente nei corpi che hai redento. Faccio tendere a infinito gli eventi del desiderio. Con te, sono molto più mio di quanto potrò mai esserlo dentro la mia stessa morte. Ti offro il mio feroce abbandono, la mia morte più nuda. Per me, sei e rimani senza alcun peccato, senza colpa, senza tenebre. Niente ha mai potuto sporcare gli occhi del tuo desiderio. Non avere paura. La bolla concentrata che è il tuo corpo ci chiama alla rivolta definitiva contro ogni poesia tradita.
La verità più prossima alla nascita, la verità che costruisce miracoli a onta di qualsiasi dio, è l’interno di questo mio desiderio che rende universale ogni tuo respiro.
È il fuori che mi ama senza rimozioni.
È la differenza tra me e te che muore ad ogni carezza per rinascere come serenità del cielo e della terra.
Non ti lascerò nella gola stretta del sogno. Il nostro destino invoca il risveglio. Il riconoscimento dell’Altro è all’imbocco del saper sorridere anche alla morte. Spalanco le braccia e ti regalo una bocca piena di colibrì. Tu sarai il loro cielo, non la loro gabbia.
Alla fine potremmo anche perdere tutto – tutta la protervia del mio sangue, tutto il limo gentile della tua fica – e nondimeno avremmo lasciato pur qualcosa da incendiare agli amanti che verranno.
Mi fai sentire così talmente vivo da rasentare l’insulto. Tu, proprio tu, Silvia Fera. È grazie a te che torno nuovamente a trascinare in giro per il mondo un fanatismo della materia che costruisce ponti anche su fiumi che sembrano non esistere (io però li vedo, li sento scrosciare, ci lavo persino i miei panni da teppista prestato alla poesia).
Come lo chiameresti tutto ciò? Sentiamo… Poesia facinorosa? Ultimo round del mio incontro di boxe con la vita acerrima? Desiderio di un diluvio fra le tue braccia? Gioia di rampicanti e volpi furtive? Dimmi un po’, come lo chiameresti tutto ciò?
[ Silvia Fera ]
All’uomo capriccioso, di tanta potenza – Dunque,
a Carmine – da Silvia: un lamento di labbra dolci.
Perché mi tormenti con parole
che vorrei morte? – Noi –
le dobbiamo uccidere!
Sanguino per i significati
che ancora non ho.
Oh – che angoscia!
Il corpo ora si scioglie.
Mi dissuggello – muoio –
Mi abortisce una noce: la tua figura
s’insinua dura nella frattura
del mio sguardo. Sei ancora
sulle mie labbra.
Squassami – qui e ora.
Io – accanto
custode delle disillusioni.
Dentro di noi
si cela – vivo – un miracolo:
la poesia!
Con te
la cavità pulsante delle viscere
colmo di tutti i significati.
[ Carmine Mangone ]
L’amore, da solo, non basta e non basterà mai. Occorre trovare un nuovo nome a corpi che si sanno già presenti e a menti che si vogliono nude. La società ne svende la gioia, ne infibula i pensieri, ma i corpi, essendo entro sé altrettante unicità e intorno a sé dei ponti verso la com-unicità, ossia verso l’autonomia dell’affetto e l’affetto per l’autonomia, si presentano come cunei che aprono prospettive nella lotta senza quartiere (e piena di accortezze) contro il nichilismo dei servi soddisfatti.
Occorre mirare a una soluzione poetica e immediata delle contraddizioni che emergano in seno all’affetto tra i viventi. Il carattere poetico del movimento implica un’intrusione decisa della bellezza in ogni decisione comune. La necessità di una pratica immediata – di un’applicazione senza differimento dei corpi amorosi migliori – impedisce che l’affetto venga subordinato meccanicamente (socialmente) al governo di una durata e agli obblighi di un progetto. Se progetto debba esserci, si dovrà sganciarlo dai propositi di fusione con l’Altro o di possesso narcisista del mondo (meglio: della rappresentazione che ci diamo del mondo) e bisognerà costruire una mutua e responsabile tenerezza: una tenerezza delle carni che si piacciono senza gli specchi deformanti della superbia o della vanità; una tenerezza dei sessi che si vogliono insieme, giocosi, in accordo, e non partigiani di una competizione.
Il cazzo fa ombra a tutto, ma non ha mai brillato di luce propria. La fica non è un’idea morale. Il culo può essere tante cose, pur essendo sempre e soprattutto un culo. Voglio dire: la verità è semplice e non ha niente a che fare con la facilità, con l’abitudine. Chi assume che il Tutto sia Uno, per cui anche il bene e il male finiscono per diventare identici, vieta alla differenza (e al piacere per la differenza) di creare un affetto per l’unicità, nonché una ripetizione sempre diversa e sempre più poetica delle migliori affinità tra i viventi.
Quando si vuol parlare di ciò che possono fare i corpi, si dev’essere in grado di cogliere carnalmente il possibile, altrimenti quest’ultimo diventa falso proprio sotto i nostri occhi e del tutto sfuggente sotto le nostre mani. Si principia dal particolare dell’affetto, dalla carne dell’unicità singolare, e si giunge al generale accordo (o al comune disaccordo) dei corpi amorosi coinvolti.
La paura di restare isolati non deve avvinghiarci al comfort dell’acquiescenza o indurci, ancor peggio, a una domesticità della poesia. L’amore non è una linea retta, né una prassi dispotica, bensì un frattale, una continua riscoperta del medesimo.
La prima condizione per cogliere poeticamente il possibile, fuori da ogni subordinazione, è la conoscenza affettuosa dei rapporti tra le unicità che si attraggono. L’affetto, nel movimento seducente del possibile, è l’avventura delle menti che si riconoscono in una tenerezza mutuamente e criticamente riconoscente.
(Oggi la mia mente è come una landa alluvionata. Tu arrivi, mi parli dei tuoi entusiasmi, delle tue idee libere come il vento, e mi piove dentro un intero fiume di esaltazioni, carezze, uccellini pigolanti. Attendo così che le acque rifluiscano. Attendo che il rigore venga ad asciugare i pensieri. Attendo il momento in cui mi ritroverò di fronte alla dinamite della tua bellezza per sorriderti come se non ci fosse più un domani.
Come farò a dirti delle mie gioie più lontane dal cielo? Come farò ad accarezzarti senza serrarmi nelle mie stesse mani?
Il dubbio non ha vinto. Combatto feramente in ogni mio giorno per vincere le fusa, le parole più sconce e belle, la gloria delle barricate che ci portiamo negli occhi.)
Rigorosa ripetizione sempre più ricca di un ritornello, di una bellezza condivisa – e senza un progetto vincolante, senza la puerile costruzione di una durata (che è sempre soggezione alla morte, subordinazione alla paura di morire): ecco che cos’è l’amore autentico, ecco cos’è l’affetto che unisce senz’alcun perdimento. Adiacenza, continuità tra i corpi, le menti, e non durata nel tempo. Ordine anarchico e non ordinamento di Stati. Soluzione di continuità di natura poetica e non decadenza tra le merci e nel valore di scambio dei corpi.
(Un monaco chiese al bambino: «Che cos’è la Via?». Il bambino rispose: «Un uomo e una donna che, tenendosi per mano con affetto, risalgono dal pozzo a occhi aperti e col sorriso sulle labbra». Il monaco rimase interdetto: «Un uomo e una donna?…». Il bambino allora aggiunse: «Sono idee. Morte come tutte le idee. Solo tu sei vivo. Tocca a te dare un respiro e un volto al mondo che ami.»)
[ Silvia Fera ]
L’anarchia amorosa odora di patchouli e pagine di diario. Si spoglia, morbida, dei significati mortiferi dell’abitudine, toglie le maschere di una morale vuota, e rimane – nuda. Lirica, logica, dolcissima: si apre nella mente come un fico maturo. Se la lecco, è tutta una sublime vastità!
La mia poesia germoglia quando tocco un amore, e poi un altro, e un altro ancora: vola su ali di falena. Io sono la gitana dell’amore che danza parole nei fianchi gravidi di anarchia.
Toccami! Il mio corpo – il mio corpo ingombrante, il mio corpo carnale – non può dividersi. Né può farlo il mio affetto. Il mio amore è un’onda: a ventaglio si apre a riva, abbracciando gli scogli diletti. Tu sei tra questi: ti amo per la tua unicità, per la tua esistenza proprio così com’è, pratico la tua libertà, gioisco del tuo vivere (che è amare, godere, crescere – tutto quanto!)
Ora che parlo, un che di umido mi invade la bocca: la mia anarchia delle relazioni va a letto con la tenerezza degli intenti: osiamo essere i guerriglieri poetici di struggente bellezza amorosa.
Ti aspetto sulla spiaggia della mia estate, tra le dune inattese del desiderio, tra i gigli odorosi di poesie al vento. Vieni! Ho bisogno che la tua mente cada come una mannaia sul ceppo, che il colpo dell’assurdo sia meraviglia. Insieme, inventiamo i territori della parola e del rispetto. Coltiviamo una nuova dolcezza. Non c’è vile possesso tra noi: solo, l’appartenenza, cioè l’intimo riconoscersi negli occhi, primitivo e animale.
[ Carmine Mangone ]
La gioia, questo sbocco sull’affetto per la materia che ci ama, quest’approdo al corpo di un’intesa strepitosa e leggera come i baci con cui ti copro mentre dormi serena, questa potenza gentile del sangue che mai tradirà il cuore delle nostre cose.
Vedo la morte che si contrae davanti all’intenerimento e che, a un tempo, si rammenta che un giorno vincerà il tuo corpo ma non lo spirito del nostro movimento, perché lo spirito è destinato a restare la potenza di ciò che siamo e che sempre saremo contro l’ignoranza amorosa di Dio, contro i tentativi di murare la poesia indecorosa dei viventi, nonché contro tutti questi umani piagnucolanti al cospetto dell’ineluttabile.
Le stelle muoiono, tu morirai, io morirò, ma la nostra gioia insulta l’irreparabile e ci unisce nel lento scivolare verso una sapienza definitiva. Il morto che sarò saluta la tua vita acerrima e ti bacia teneramente fino alla fine dei tempi. La gioia è trafittura di meteore nel cielo dei tuoi occhi. È la considerazione pensante delle stelle, delle pietre, del vento. È la conoscenza dell’impossibile che domiamo venendoci incontro e perdonando in anticipo la nostra morte.
Il mondo manchevole che si annida anche nel nostro amore non minerà il sapere, il voler sapere, l’affetto verso gli elementi che, per niente astrattamente, giocano – come esili steli dell’eternità – dentro il nostro sangue.
La gioia è la compiutezza di attimi, l’irruzione del sorriso che strappa interi territori alle separazioni e alla paura. In questo, si pone agli antipodi di tutte le idee sul sacrificio derivanti da religione e politica.
Rispetto alle congetture sulla felicità, la gioia ha sempre un corpo, una corrispondenza immediata alla presenza d’un corpo; non si subordina all’idea di un determinismo sentimentale, né tanto meno si realizza a scapito della singolarità vivente che la prova.
Solo nella gioia si costruisce o si disvela l’essenziale che ci rende toccanti. Solo la gioia crea le aperture che trascendono le necessità materiali fornendo le basi per una com-unicità affettuosa tra i viventi.
13-18 settembre 2022. Opere (dall’alto in basso): Robert Longo, Strong in Love (Dog Kiss), 1983; Guy Bourdin (foto del 1976); Jan Saudek, Kisses in the Moonlight, 1990; Katsushika Hokusai (Giappone, 1760-1849).