La mia prefazione a: Luca Gamberini, Lo sguardo deluso dagli specchi, autoprodotto, 2022. Per richieste: egosound@gmail.com (il libro costa 12 euro). Un grazie di cuore a Luca per l’amicizia e per l’avermi imbarcato a bordo del suo vascello pirata.

 

 

Voglio partire da quello che potrebbe sembrare, agli occhi di chi legge, un intrico di veri e proprî paradossi rispetto ai luoghi comuni della cultura. La mia, però, non vuole essere una provocazione, bensì una disponibilità, un’apertura affettuosa e senza soverchie cautele verso le possibilità dell’espressione umana.
Io resto convinto che l’autenticità dei viventi sia sempre imperfetta e cosa abbastanza distinta dalla bellezza. Una tale autenticità si manifesta ai nostri occhi con un fare sempre un po’ claudicante e ciò per un motivo storico determinato, evidente ormai soltanto alle menti più accorte: in quanto civilizzati, noi non siamo più abituati all’autenticità, non riusciamo più a cogliere il nesso folgorante tra le superfici delle cose e la compiutezza possibile degli elementi che le costituiscono, abbiamo una dannata paura a farci abitare dalla loro mortalità, dal loro divenire. Ciò accade perché miriamo ottusamente alla perfezione di superfici levigate, di pensieri senza profondità, di opinioni che sono la celebrazione narcisista della frammentazione avvenuta in seno ai saperi, e, soprattutto, perché crediamo che ciò possa porre una distanza salvifica tra noi e la nostra ineluttabile e incessante ricombinazione nel flusso della materia vivente.
Ora, che cos’è l’autenticità se non l’adesione compiuta, appagante, all’azzardo mortale della materia che costituisce i nostri corpi? E che cos’è la vita se non la rilegatura di tutti quei momenti in cui riusciamo a farci carico poeticamente di un simile azzardo?
Non esiste alcuna perfezione, se non nelle menti dei civilizzati impauriti dalla piega che vanno prendendo vita e morte. La perfezione è lo specchio deformante di uno spirito che si è voluto vettore di divinità, di totalità, e che invece oggi annaspa pateticamente ai margini di un universo indifferente. Bisogna quindi che si muti prospettiva, dando la giusta preminenza all’unicità di ogni singolo vivente, nonché alle capacità individuali di goderne autonomamente o di svilupparla insieme all’Altro: un’unicità sempre in divenire, sempre altrimenti dicibile, continuamente alla ricerca di un’affinità con gli elementi del cosmo, e pertanto mai definibile una volta per tutte, mai stazionaria, sempre meglio imperfettibile a ogni nuova esperienza. Unicità come divenir poesia del singolo, come varco poetico verso la com-unicità, intendendo quest’ultima come soluzione comune e affettuosa alle tante separazioni e contraddizioni indotte dalla contemporaneità.
Detto questo, quale definizione possiamo ancora dare a ciò che si chiama poesia e che senso imprimere – quale direzione, quale mancanza di direzione – alle possibili dinamiche poetiche del mondo?
La risposta appare semplice (semplice, non facile): la poesia è sempre stato il tentativo sovrano – ossia: non subordinato al senso comune – di dire la bellezza delle imperfezioni e l’audacia di quell’autenticità che cerca di ridurle. In ciò, essa non fa altro che costruire alleanze, amicizie tra l’insufficienza del pensiero umano e la nostra protervia nell’andare a vedere le carte in mano al destino; amicizie che sono, o possono essere, il senso più vero e forte del moto che imprimiamo alla vita insieme agli altri, nonché una maniera passabilmente adeguata per assolvere la nostra morte (e, qui, nell’avverbio passabilmente, si stanzia tutta l’ironia di quella bellezza ancora possibile dentro i rapporti tra i viventi).

La poesia di Luca Gamberini, come ogni scrittura che sa essere toccante, si sgancia dai canoni formali, si affranca dalle velleità dilettantistiche, e parla lealmente alla possibile bellezza delle nostre imperfezioni. D’altronde, un mare senza correnti, risacche o relitti non sarebbe più un mare. Gamberini non infioretta le imperfezioni che vede dentro e fuori di sé, né tanto meno fa sconti a quelle dell’Altro. Le rivela con tenerezza, con fermezza, e prova a dirle mettendoci in guardia contro lo strabismo della poesia. Assume così l’impegno di ricordarci che la bonaccia non esiste e che dobbiamo accordarci continuamente con le maree generate dalla disillusione, dagli smacchi, dalle lune storte del desiderio. Essere pietra non ci salva dalle mareggiate, dalle burrasche. Anzi, ci induce a riflettere sulla stabilità fittizia delle parole che han cercato di dire il desiderio, la protervia dell’amore, e a saggiare, nondimeno, una modalità ulteriore del noi e del divenire: «Vorrei che tu / mi volessi bene senza parlare, come / se io fossi una pietra. / Scrivere è l’unico / modo che conosco / per poterti vedere; / crearti e distruggermi. / Non ti chiedo nulla / soltanto vorrei che / tu ti mettessi in salvo / dalla mia pace».
Il taglio dell’inquadratura è essenziale. Dire non significa vagheggiare all’ombra del già detto, né può limitarsi a una mera ratifica dell’esistente, fuorché, beninteso, nel dominio sociale del cosiddetto “senso comune”, che però è quasi sempre un “buon senso” mortifero, ruffiano, oppure un “senso unico” messo lì a disciplinare la potenza ingovernabile delle unicità. Gamberini lo sa e si tiene perciò ben distante dalla poesia inerziale dei salotti letterari. Non è un caso che egli parteggi, con una tensione rimbaudiana, per i margini, per gli echi del passato e del futuro, nonché per una conciliazione accorata delle imperfezioni: «Il volume di un pensiero affittato a stagione / crea insicurezza a uno sguardo decimato / dai vuoti di dire. (…) non sapere come distinguere / i sogni dai cruciverba, andare a capo come / gennaio dopo dicembre, la solitudine della / posta all’interno della cassetta, dipende da / noi questo odore di niente (…) Le parole dei nonni / come monete fuori corso, il pastore zoppo / del presepe, le parti in comune imbrogliate / dal comune denominatore io».
In un mondo dove ormai «il vero è un momento del falso» (tanto per citare Guy Debord), anche il poetico diventa un elemento che si porta dietro una particola di irrealtà, di mistificazione, soprattutto se esso resta confinato nel ristretto ambito letterario. Le poesie, da sole, non cambiano l’esistente e finiscono anzi per rafforzarlo passandovi sopra una mano di smalto. In un mondo siffatto, il Nulla non si rovescia dialetticamente in un Tutto; le cose non sono così facili. Solo gli idealisti, o gli scribacchini senza cuore e senza vergogna, restano affezionati alla proliferazione meramente letteraria della poesia. Come scrive un polemico Gamberini, che perdonerà senz’altro la mia parentesi quadra proclive a generalizzare una sua idiosincrasia: «Le parole [del poeta] hanno successo perché sono di tutti coloro che non le usano». Ovviamente, do qui per scontato che l’autore dia al verbo usare il senso di un mettere in pratica. Usare le parole, quindi, senza usurarle, senza usurparle, per tornare a sentirle soprattutto nella carne, tra i corpi, nelle relazioni materiali che costruiscono ciò che resta della nostra realtà. La poesia non è uno specchio dove vedersi più belli, bensì un’apertura critica, un tentato amore. In altre parole, la poesia deve farsi mano tesa verso l’Altro; una mano sempre pronta ad accarezzare la corteccia di un albero, il volto di un vecchio, ma anche a lanciare un sasso ben poco metaforico nello stagno di Narciso per distoglierlo dal suo mortale affatturamento. Ancora Gamberini, stavolta con toni quasi cioraniani: «Tentare di conoscere me stesso è stata una forma di arricchimento che mi ha indebitato al punto di perdere ogni residua traccia di entusiasmo. [Poi, poco più oltre, egli aggiunge:] Non ho mai rinunciato alla mia mediocrità, semmai, ho sempre aspirato a fallimenti più grandi, sfiorandone l’immensità, accarezzandone la devastazione». Ecco, costeggiare l’immenso, che significa compiutezza sempre possibile delle nostre migliori imperfezioni, facendosi attraversare dai tumulti della vita, dalle contraddizioni, dalla labilità dei nomi, tutto questo informa la poesia e permette alla poesia di sormontare ogni forma costituita. L’esistente si lascia allora permeare dalla meraviglia. Le pietre dentro il cuore si sbriciolano. Negare la propria “mediocrità”, in fondo, ci priverebbe dei mezzi per abbatterla o per affidarla al perdono degli altri. Abbiamo però bisogno di staccarci dai nostri specchi per poter sfidare l’orizzonte degli eventi. Nessuna pietà per le parole mediocri o per la nostra incapacità di compassione! Occorre potare l’albero della conoscenza volendoci infine come gli amanti fedeli dei suoi rami, delle sue radici. Gamberini stesso torna continuamente sull’amore e si scontra ogni volta con le idee limitate dell’affetto, ma non demorde, non se la sente di consegnare alla morte le proprie sconfitte, vuole ancora più destino, più luce, e non disarma mai lo sguardo: «Mi innamoro di alberi / mutilati, mi fanno gli occhi / più grandi, più aperti, certe mattine / poi mi muovo nel sonno, il buio / mi illumina e mi scopro mutilato / se mi innamoro di te / che, non sei, non vuoi, o, forse / semplicemente, non sai degli alberi».

In àmbito amoroso, stando a Roland Barthes, le ferite che fanno più male derivano maggiormente da ciò che si vede e in misura minore da ciò che si sa. È proprio per questo che lo sguardo cerca di vaccinarsi contro il buio, i rispecchiamenti indesiderati, le macchie cieche dell’affetto. L’occhio vuole la sua parte, ma la parte ammirata non sempre ci occhieggia o si tiene al vaglio dei nostri sguardi. La collezione dei ricordi è soprattutto una galleria d’immagini. La memoria si basa infatti essenzialmente su parole che trattengono immagini o sensazioni legate a una particolare inquadratura del mondo, dei corpi, dell’Altro. Le idee sull’amore vengono soltanto dopo e hanno l’obiettivo di governare e dare un senso alle informazioni incamerate. Quando guardiamo l’Altro, noi cerchiamo di vedere in esso una parte significativa dei nostri slanci. L’occhio identifica, distingue, riconosce. E non solo. Ci serve soprattutto per mettere a fuoco il distante o l’adiacente, il prossimo o il dissimile.
Nella poesia di Luca Gamberini, lo sguardo si fa sospensione del giudizio, cruccio di una tenerezza che non s’avvita su una qualche speranza. Egli tiene gli occhi aperti, anche davanti alla morte e alle proprie sconfitte, ma non fa delle proprie visioni un purgatorio confortevole: «Sempre ti guardavo. / Come si guarda il paesaggio / dal finestrino di un treno. (…) Sapevi tenere il mio cuore / a un passo di distanza dalla morte». E ancora, prendendo per mano una fiducia da ritemprare: «ti sopravvaluto di pregi / in modo da rendere meno buie / le ore della notte / che non so più contare. / Ti ho sempre guardata come fa il filo d’erba / quando scruta il fiore appena sbocciato».
L’amore muore e noi sopravviviamo alla sua morte. La primavera ritorna e noi cerchiamo di non morire insieme ai nidi disertati. La memoria è un avversario temibile, inflessibile. Non potremo mai bonificarla del tutto a nostro piacimento. L’età dell’oro si rivela un amore morto e le parole di un tempo assumono un peso che va alleviato senza posa. La poesia serve allora anche a questo: a modulare la nostalgia, il piacere del ricordo, a inventarsi altresì un percorso per tornare a casa, nonché a creare dei ritornelli per un possibile rilancio dell’affetto. Se tutto ha una fine, e parrebbe proprio di sì, che almeno si prenda la strada più bella per godersi ogni esperienza, compresa la fine stessa, poiché, come chiosa meravigliosamente Gamberini nella poesia Il cuore grande del mare: «Tutto ha una fine / che non finisce se la morte sa essere dolce».

Laureana Cilento, 21-22 ottobre 2022

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