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Inizio a pubblicare di seguito uno dei capitoli fondamentali del mio L’insurrezione che è qui. Max Stirner e l’unione dei godimenti (Gwynplaine, 2017). Data la lunghezza del testo, trovo opportuno dividerlo in almeno tre parti. Buona lettura. P.S.: le foto sono di Josef Koudelka.

L’unico e la sua proprietà è una lettura a tratti faticosa, irritante. Da buon pedagogo (più o meno mancato), Stirner incalza il lettore con non poca pedanteria e appesantisce il testo con continue ripetizioni. Per di più, il filosofo tedesco argomenta poco o nulla le sue asserzioni, maneggia sommariamente idee e figure per portare acqua al proprio mulino e dimostra delle conoscenze non proprio irresistibili in materia di filosofia antica e storia. Cionondimeno, il suo Der Einzige è un dispositivo teorico impossibile da disinnescare. Lo si può eludere, se ne possono sottolineare degli aspetti per agganciarlo strumentalmente a questa o a quella corrente di pensiero (anarchismo, esistenzialismo, post-strutturalismo), tuttavia, al di là degli sforzi accademici o bassamente apologetici, resta l’evidenza di un denudamento senza precedenti del sapere occidentale. È come se qualcuno, in modo proditorio, avesse calato le brache a Hegel mostrando l’origine e il nucleo irriducibile di ogni speculazione, di ogni costruzione mentale. Affermare infatti l’unicità dell’io rimanda necessariamente alla strutturazione materiale del pensiero, alla “carne viva” della volontà. In altri termini, con essa emerge o balena senza posa il corpo carnale di ogni singolo vivente – quel corpo “unico” che costituisce l’assetto, la materialità, la piattaforma irripetibile dell’individuo.

Stirner non lo dice espressamente, ma uscire dal “cerchio magico del cristianesimo” implica una riappropriazione simbolica e pratica del proprio corpo. Prima della famiglia e della società, al di qua di Dio e dello Stato, viene e verrà sempre il mio corpo di carne: anche contro di essi, soprattutto contro di essi, se voglio vivere compiutamente la mia unicità. Lo spirito assoluto non vince la mia volontà di godimento. Anzi, la mia volontà di godere appieno della vita, se non diventa autolesionista, giunge a disturbare ogni pretesa di regolazione sociale.

La questione decisiva resta la relazione tra “uno” e “molti”, ossia tra l’unico e la società umano-femminile in cui egli si trova a vivere la propria presenza.

L’unicità emerge dal rapporto con l’altro. Si staglia nella distanza rispetto all’altro. Però la conquista dell’autonomia personale deve passare anche attraverso una riconsiderazione critica di tale distanza – e dei rapporti materiali che la producono – per farne uno spazio di confronto, non un divario.

Il problema da affrontare è dunque quello di una comunanza accettabile, atta a non insidiare i processi di autogodimento del singolo e che può aversi principalmente con la costruzione di un’unione che riesca a preservare e ad amplificare le unicità in gioco, facendo della comunanza stessa una com-unicità, ossia un’associazione concordata e antiautoritaria delle individualità uniche.

Beninteso, ciò che si chiama comunismo è parte del problema. Anzi, in massima parte, è stato storicamente – nelle sue varianti marxiste e libertarie – l’emergenza stessa del problema.

L’organizzazione razionale del lavoro, messa in atto dalla borghesia in epoca moderna, ha intensificato lo sfruttamento delle risorse naturali e la subordinazione delle attività umane esacerbando le contraddizioni sociali.

Nel corso del XIX secolo, gli sfruttati si sono andati via via organizzando nella prospettiva di un generale riassetto della società. C’era il sogno di abbattere le classi dominanti e di fare di ogni uomo il padrone della “natura”, attraverso dinamiche rivoluzionarie miranti a redistribuire la ricchezza sociale e a reindirizzare in modo equo la razionalizzazione del lavoro. C’era un progetto diffuso, una possibilità di trasformazione del mondo che vedeva coinvolta, tendenzialmente, e tramite il proletariato, buona parte del genere umano. La rivoluzione era vissuta infatti come un disegno universale di ricomposizione sociale, come una cesura storica e generalizzata per la liberazione dell’intera umanità dal giogo della valorizzazione.

Le dinamiche sociali rivoluzionarie, che si fondano primariamente su una socializzazione dei mezzi di produzione, cioè su una radicale redistribuzione delle risorse sociali a favore del proletariato, impongono a Stato e capitale, a partire dai primi decenni del Novecento, dei processi di allargamento della partecipazione politica, nonché di socializzazione e democratizzazione del consumo. Più precisamente, la valorizzazione capitalista, che si esercitava soprattutto sullo sfruttamento intensivo della forza-lavoro e sul saccheggio colonialista, allarga l’accesso sociale alla ricchezza, almeno nei paesi occidentali, estendendosi progressivamente a tutti gli àmbiti del vivere (New deal roosveltiano, politiche economiche keynesiane, consumo di massa, socialdemocrazia, “liberalizzazione” dei costumi, ecc.). In tal modo, capitale e Stato recuperano le istanze rivoluzionarie e riformatrici incanalandole in processi di rafforzamento e ottimizzazione dei dispositivi sociali di valorizzazione.

Quando viene pubblicato l’Unico di Stirner, nell’ottobre 1844, le teorie socialiste e comuniste vanno ancora strutturandosi. Bakunin si interessa vivamente al pensiero socialista da un paio d’anni appena, cioè dal suo arrivo a Dresda nel 1842. Il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels uscirà solo il 21 febbraio 1848, mentre l’Associazione internazionale dei lavoratori, meglio nota come Prima Internazionale, verrà fondata a Londra vent’anni dopo, nel 1864. Il “socialismo scientifico” era quindi di là dall’affermarsi – non si parlava ancora di anarchismo o marxismo – e le idee socialiste più diffuse restavano senz’altro quelle di Pierre-Joseph Proudhon, il quale aveva pubblicato nel 1840 il suo Qu’est-ce que c’est la propriété?

Proprio Proudhon è tra i bersagli di Stirner, e il francese non è certo il solo teorico radicale ad esser preso di mira. Tra le pagine dell’Unico, spicca infatti una critica netta, lapidaria e quasi profetica del comunismo, che il filosofo tedesco fa peraltro rientrare, insieme alle teorie socialiste, nella categoria del “liberalismo sociale”1.

Senza perdersi in troppe argomentazioni, Stirner intuisce l’involuzione autoritaria del movimento comunista e giunge a considerarlo una propaggine storica del cristianesimo, in ciò anticipando, e forse influenzando, il Nietzsche del Der Antichrist (1895). Stirner scrive: «Il comunismo, abolendo ogni proprietà personale, mi costringe ancor più a di­pendere da un altro, da un qualcosa di universale o collettivo, e per quanto esso attacchi violentemente lo “Stato”, ciò che si prefigge è pur sempre uno Stato, uno status, una condizione che ostacola la libertà dei miei movimenti, un’egemonia su di me. Il comunismo si oppone a giusta ragione all’oppressione che subisco dai singoli pro­prietari, ma il potere che esso attribuisce alla collettività è persino più terribile»2. E ancora, tenendo a mente il significato specifico, e non meramente giuridico, che Stirner dà al concetto di “proprietà”: «Secondo l’opinione dei comunisti, dev’es­sere proprietaria la comunità. Al contrario, sono io il proprietario, e mi ac­cordo con gli altri solo a proposito della mia proprietà [Eigentum]. Se la comunità mi tratta in modo ingiusto, io mi sollevo con­tro di essa e difendo la mia proprietà. Io sono proprietario, ma la proprietà non è sacra. (…) Se i socialisti dicono: la società mi dà ciò di cui ho bisogno – l’egoista usa dire: mi prendo da solo ciò di cui ho bisogno. Se i comunisti si atteggiano a straccioni, l’egoista si comporta da pro­prietario»3.

Nella prospettiva comunista, lo Stato livella le disparità sociali e diventa l’ombrello sotto il quale la collettività – attraverso le sue organizzazioni di sintesi – accentra e governa le attività umane che producono valore. La razionalizzazione del lavoro si pone allora come pietra di paragone del bene e del male. L’obiettivo è superare le dinamiche irrazionali e disequilibrate che caratterizzano la gestione sociale delle cose, ponendo nelle mani dell’uomo gli strumenti per ricostruire il mondo su basi egualitarie. Si esalta quindi il lavoro, lo si “santifica” per usarlo contro le classi agiate o improduttive, ma torna in auge così, per vie traverse, l’ingiunzione di San Paolo: «chi non vuol lavorare neppure mangi»4.

Il lavoro che produce merci porta alla produzione della vita in quanto insieme di cose ed è reificato insieme al lavoratore e al tempo di produzione del valore. In tal modo, inevitabilmente, la quantificazione del lavoro e del tempo reificati impone una misura a tutte le cose e diventa lo schema valutativo per eccellenza. Il lavoro, come paradigma della società e dell’umanizzazione, scatena il sarcasmo di Stirner: «Il fatto che il comunista intraveda in te l’uomo, il fratello, è solo il lato domenicale del comunismo. Nei giorni feriali, egli non ti con­sidera affatto come uomo in sé, bensì come lavoratore umano o come uomo lavoratore. Il principio liberale si ritrova nel primo modo in cui ti vede, mentre nel secondo si annida l’illiberalità. Se tu fossi un “fannullone”, non disconoscerebbe in te l’uomo, ma, in quanto “uomo pigro”, ti monderebbe dalla pigrizia e ti porterebbe a credere che il lavoro è “il destino e la missione” dell’uomo»5.

Si delinea così, in Stirner, un conflitto insanabile tra l’etica del lavoro e una prassi egoistica del godimento. Io mi metto in opera, intervengo sul mondo per ottenere dei risultati materiali, ne trasformo alcuni elementi in modo da ricavare dei vantaggi personali, ma la società e lo Stato mi sottraggono gran parte di ciò che produco, senza che io possa controllare direttamente la quantità e la qualità di quel che mi viene reso come contropartita. Abdico così alla mia reale autonomia individuale accettando un’autonomia astratta, di concetto, che si rivela nient’altro che l’autonomia del valore e del mondo ridotto a cosa, a merce. Nel dominio reale del capitale, i processi di valorizzazione cui acconsento costruiscono la mia libertà entro i limiti delimitati da Stato e società, i quali determinano anche le modalità per acquistare – commercialmente, politicamente – pacchetti di autonomia astratta. Io mi alieno producendo valori. In tal modo, mi torna indietro un’alienazione arricchita. Produco quindi per consumare e consumo per essere produttivo, però non ho il pieno uso di ciò che metto in opera, non ne ho il pieno godimento, né potrò mai averlo restando dentro i vincoli della valorizzazione socialmente determinata. Io lavoro per avere un vantaggio, ma la società si avvantaggia su di me proprio attraverso il mio lavoro. Si comprende quindi chiaramente il perché della moderna “santificazione” del lavoro, nonché il nesso ideologico e mistificatorio tra lavoro e libertà, portato al massimo grado negli ambienti socialisti. Il servo della gleba si trasforma storicamente in operaio, in salariato. Il suo “travaglio” diventa lavoro6. Acquisisce così la libertà di poter disporre della propria forza-lavoro, almeno nominalmente. In realtà, lo spossessamento della sua opera non viene a cessare, anzi si accentua, soprattutto con le innovazioni tecnologiche dell’era industriale. Per certi versi, la scritta all’ingresso di Auschwitz – Arbeit macht frei – è solo la cinica estremizzazione di un discorso ideologico diffuso, per il quale il lavoro rende liberi fin dentro la morte, fino alla morte, il che significa, per converso, che la libertà del lavoro (o mediante il lavoro) non è sufficiente a garantirci una vita degna di questo nome. Emblematica, in ogni caso, è la natura di diritto-dovere assunta dal concetto di lavoro in diverse costituzioni statali, indifferentemente liberaldemocratiche o marxiste. In quella sovietica del 1936, ad esempio, l’art. 118 sancisce che «I cittadini dell’URSS hanno diritto al lavoro», laddove l’art. 12 è quanto mai impositivo e riprende addirittura l’ingiunzione paolina: «Il lavoro, nell’URSS, è un dovere e un impegno d’onore per ogni cittadino abile al lavoro, secondo il principio: “chi non lavora, non mangia”. Nell’URSS si attua il principio del socialismo: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro”»7. La norma sovietica apporta qui una modifica essenziale allo slogan comunista reso celebre dal Marx della Critica del Programma di Gotha (ma già formulato per sommi capi in: Atti degli apostoli, 4, 35) e che recita: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Nella costituzione staliniana, infatti, i bisogni cedono il posto al lavoro, vengono perciò in subordine rispetto al dovere del lavoro. In questa prospettiva, ogni singolo proletario deve operare per l’edificazione del socialismo e quindi per l’avvento di un’umanità finalmente affrancata dallo sfruttamento, ma, nel frattempo, egli è costretto a ridimensionare pretese e bisogni delegando a Stato e società la tutela dei propri interessi. Deve dire di no al godimento immediato dei processi di comunizzazione. Non può intervenire su di essi, né mettere in discussione l’apparato statale preposto alla loro conduzione. Deve quindi sottomettersi agli schemi socialisti approntati dal partito e accettarne le direttive. La transizione tra capitalismo e socialismo si rivela una trappola: la giustezza della causa impone una morale improntata al sacrificio e un livellamento sociale in cui le unicità annaspano o sono addirittura criminalizzate. Max Stirner, al confronto, appare lungimirante e accorto già nel 1844: «I comunisti dicono: a pari lavoro si conceda agli uomini un pari godimento. (…) No, l’uguale lavoro non ti dà questo diritto, solo l’uguale godimento ti autorizza a un pari godimento. Godi, così sarai autorizzato a godere. Ma se tu hai lavorato e ti lasci privare del godimento, allora – “ben ti sta!”. Se vi prendete il godimento, esso è un vostro diritto; se invece lo agognate soltanto, senza prenderlo, esso rimane ancora un “diritto ac­quisito” di chi ha il privilegio del godimento. È un suo diritto, così come diverrebbe il vostro se voi ve ne impadroniste»8. Ma come fare a impadronirsi del proprio godimento? Come sottrarlo alle dinamiche economiche fondate sullo scambio o sulla socializzazione statale? La ricetta di Stirner è semplice, brutale: «L’egoismo batte un’altra strada per sradicare la ple­be nullatenente. Non dice: “Aspetta ciò che ti concederà equamente l’autorità in nome della collettività” (tali donazioni, negli “Stati”, già esistono da sempre sulla base del “merito”, viene cioè dato a ciascuno nella misura in cui ha meritato, ha saputo guadagnare), bensì dice: “Allunga le mani e prenditi ciò di cui hai biso­gno!”. Così si dichiara la guerra di tutti contro tutti. Solo io decido ciò che voglio avere. (…) quel gesto dell’allungare le mani non è spregevole, ma esprime semplicemente il modo d’agire dell’egoista coerente con se stesso. Solo quando non mi aspetterò più dai sin­goli o da una comunità ciò che mi posso dare da me, solo allora potrò davvero districarmi dalla rete – dell’amore; la plebe cesserà di essere plebe solo quando allungherà le mani. Unicamente il timore di afferrare e il relativo castigo fanno sì che essa rimanga plebe. (…) Quando gli uomini arriveranno a perdere il rispetto per la proprietà, ognuno avrà una sua proprietà, così come ogni schiavo diventa un uomo libero non appena smette di rispettare il padrone in quanto tale. A quel punto, le unioni moltiplicheranno i mezzi del singolo e ne metteranno al sicuro la proprietà contestata»9. D’altronde, aggiunge Stirner: «I lavoratori hanno fra le mani un potere mostruoso [die ungeheuerste Macht], e se ne diventassero una buona volta consapevoli e lo usassero, niente gli resisterebbe: non hanno che da sospendere il lavoro e considerare come proprio, godendone, il frutto del lavoro. Questo è il senso delle agitazioni operaie che avvengono un po’ ovunque. Lo Stato si fonda sulla – schiavitù del lavoro. Se il lavoro diventerà libero, lo Stato sarà perduto»10; «Insomma, la questione della proprietà [Eigentumsfrage] non si può ri­solvere in via amichevole come vagheggiano i socialisti e finanche i comunisti. Sarà risolta solo dalla guer­ra di tutti contro tutti. I poveri diventeranno liberi e pro­prietari solo quando – si rivolteranno, si solleveranno, in­sorgeranno. Donate loro quanto volete ed essi, in ogni caso, vorranno sempre di più, perché non pretendono altro che di porre fine alle concessioni»11. Stirner mette qui in discussione i fondamenti ideologici della subordinazione e della valorizzazione economica basate sul lavoro salariato. In particolare, egli critica radicalmente i meccanismi della mediazione rappresentativa e della delega che sono alla base di ogni organismo politico. Il capitale e lo Stato impongono una fitta trama di norme, concertazioni, intercessioni. In cambio di una libertà compartimentata, l’individuo è costretto ad incanalare le proprie attività (la propria vita quotidiana) attraverso le strutture di mediazione socialmente determinate. Non può chiamarsi fuori dalla ragnatela di doveri e prescrizioni sociali. Risulterebbe sennò un ingrato egoista o addirittura un “criminale”. Deve quindi assoggettarsi ai diritti soggettivi che gli vengono concessi dallo Stato. La sua proprietà – in senso stirneriano – è compressa dentro i confini del sacro e della legalità. In altre parole, la gestione sociale dell’individualità viene delegata ai preti, ai politicanti, ai medici, sottraendo ai singoli buona parte della loro potenza, così da renderli atti a produrre o a veicolare i valori del gruppo di riferimento. La società non fa che produrre separazioni tra i singoli e le loro potenzialità, installando le proprie strutture di mediazione, le proprie immagini, nei vuoti che vengono a crearsi. L’individuo è spinto così a identificarsi con un insieme di valori e immagini, cui si conforma per potersi sentire “umano” o per essere riconosciuto in quanto “cittadino”. Agisce sempre meno in modo diretto e sempre più in funzione delle astrazioni che lo dirigono secondo le leggi della valorizzazione. Nel timore di vedersi marginalizzato dalla società, non si sottrae alla socializzazione della propria potenza. Si sacrifica allora di buon grado in cambio di un indennizzo economico e morale per ciò che gli viene sottratto, giungendo talvolta a fare la voce grossa quando non ritiene soddisfacente l’ammontare di tale indennizzo. Così facendo, il singolo introietta la morale dominante e cerca d’incarnarne i valori. La “servitù volontaria” si evolve in volontà di servire e in desiderio di essere serviti, legittimando e rafforzando l’espropriazione sociale del sé. Occorre perciò un rovesciamento di prospettiva, una cesura radicale rispetto all’esistente, se l’individuo vuole sospendere ogni collaborazione con le strutture sociali che lo diminuiscono. Uscire dalla servitù – separandosi criticamente dalle separazioni sociali – significa anzitutto pensare la propria unicità, la propria autonomia, quindi insorgere, allungare le mani, godere di sé e del mondo. In caso contrario, senza la riappropriazione concreta di sé e dell’esistente, unicità e autonomia resterebbero delle parole vuote, “spettrali”, buone solo per una nuova insalata ideologica: «Proudhon chiama la proprietà “il furto” (le vol). Ma la proprietà estranea [fremde Eigentum] – e solo di questa egli parla – esiste unicamente grazie al sacrificio, alla rinuncia e alla remissività, è un dono. Perché allora far ricorso a quest’atteggiamen­to sentimentale da poveri derubati invocando pietà quando si è solo degli stolti, vili do­natori? Perché (…) voler dare la colpa agli altri, come se fossero loro a derubarci, quando in realtà la col­pa è nostra, dal momento che non li derubiamo? Se esistono dei ricchi, la colpa è dei poveri»12, al che i poveri hanno però sempre la possibilità di riappropriarsi dell’esistente che è stato loro estorto. Attraverso un processo insurrezionale, cioè attaccando o eludendo le cose e le relazioni che perpetuano lo sfruttamento, il singolo incrina i meccanismi politico-sindacali della delega, della rappresentanza. L’egoista agisce in prima persona, senza mandati né procure, abbattendo sia le mediazioni sociali autoritarie, sia il senso d’impotenza e di subordinazione che esse diffondono. Mediante il sabotaggio dell’esistente, viene così ad aprirsi uno spazio per nuove connessioni. L’azione diretta – uno dei fondamenti dell’anarchismo storico – comporta un linguaggio immediato, di rottura, la cui decodifica, potenzialmente, è alla portata di chiunque sia oppresso dai meccanismi che vengono attaccati.

Ci sono azioni che fanno teoria e teorie che non viaggiano necessariamente lungo il filo di un discorso. L’insurrezione non occupa territori, non delimita semplicemente un campo di battaglia, né separa i diversi mondi dell’uomo. L’attacco è sempre un’attaccatura, un concatenamento, il ripristino dell’accordo tra chi compie l’azione e il suo mondo di relazioni, di pensieri. Il tempo lineare, inteso come successione storica delle valorizzazioni, viene così ad incepparsi e lascia il posto a una coesistenza di presenze, di unicità viventi che si riscoprono un divenire proprio, messo in comune egoisticamente. Mutuare questa coesistenza, senza fissarla in uno stato particolare, rimane la giustezza dell’insurrezione, la sua “inattualità”, il suo riassociare vita e conoscenza realizzandole nel compiuto godimento di sé.

Io mi rendo il più possibile autonomo dalle strutture comunitarie per potermi riappropriare di me stesso e godere così della mia unicità. Il mio egoismo consapevole è un pensiero critico – nonché una critica del pensiero – che riconduce tutto a me, quindi mio proprio. Si tratta infatti di un -ismo bastardo, effimero, che sostanzia sempre un dispositivo personale. Non esistono infatti due egoismi che possano combaciare perfettamente, proprio per l’unicità manifesta del processo egoistico. Le relazioni partono da me e devono tornare a me. La compiutezza implica la chiusura del cerchio, come pure il saltarne fuori per evitare la trappola del narcisismo. Nello sviluppo della mia vita, io resto necessità a me stesso, però devo stare attento a non irrigidirmi, a non attestarmi sulle conquiste effimere della volontà, in modo da saper rilanciare criticamente il movimento di esaltazione e accrescimento della mia potenza. Nella proprietà dell’unico, rientra infatti la sua capacità di considerarsi parte integrante del processo vitale e creativo in cui si trova calato, vivendosi in esso come vettore e beneficiario della trasformazione in atto. In questo movimento, il singolo vivente deve allungare le mani sul mondo e saper afferrare, abbracciare, stringere, evitando però di “istituzionalizzare” la propria presa. Non può certo attendersi o pretendere una legittimazione da parte della società presente o futura. Anzi, dovrà attaccare le eventuali sacralizzazioni del concetto stesso di unicità, impedire cioè che esso diventi un’idea fissa, un elemento ideologico, astratto, in modo da tenerlo avvinto, dinamicamente, alle proprie specificità individuali, carnali. Su ben altre posizioni restano invece i teorici della rivoluzione socialista: «Proudhon e i comunisti lottano contro l’egoismo. Per­ciò essi sono continuazione e conseguenza del principio cristiano, del principio dell’amore, del sa­crificio per qualcosa di universale, di estraneo. Essi portano solo a compimento, per esempio nella proprietà [Eigentum], ciò che vi era già presupposto, vale a dire la mancanza di proprietà del singolo. (…) Dunque: in quanto nemici dell’egoismo, essi sono – cristiani o, più in generale, uomini re­ligiosi, uomini che credono ai fantasmi, dipendenti, servi di qualche entità generale (Dio, la società, ecc.)»13. [ 1 – continua ]

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NOTE

1  Sui rapporti tra il pensiero stirneriano e le idee socialiste, cfr. Ferruccio Andolfi, L’egoismo e l’abnegazione. L’itinerario etico della sinistra hegeliana e il socialismo, Franco Angeli Editore, Milano, 1988.

2  E, 285-286 [il riferimento è all’ultima edizione Reclam del Der Einzige].

3  E, 287.

4  Seconda lettera ai Tessalonicesi, 3,10.

5  E, 133-134.

6  In alcune lingue europee, come pure in diversi dialetti italiani, il termine che indica il lavoro deriva dal latino tripalium, che indicava originariamente uno strumento di tortura (cfr. lo spagnolo trabajo, il portoghese trabahlo, il francese travaille, il sardo logodurese tribagliu, il siciliano travagghiu). Il vocabolo latino, chiaramente, è anche l’etimo dell’italiano travaglio. Da tutto questo, emerge in maniera lampante una concezione popolare del lavoro non proprio idilliaca.

7  Il lavoro come diritto-dovere è presente anche nella costituzione italiana del 1948: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4).

8  E, 209.

9  E, 286-287.

10  E, 127.

11  E, 288.

12  E, 353.

13  E, 277-278.