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com-unicità, contro i sensi di colpa, critica dell'amore, erotismo, monogamia, Per una storia del godimento, Viviana Leveghi
[ Un estratto dal mio Qui la vita, qui gioisci, Ab imis, 2024. Elaborazioni grafiche: Viviana Leveghi. ]

Nessun vivente è perfetto. La perfezione non esiste. I moralisti, d’altronde, come la gran parte dei santi, si rivelano alquanto noiosi. La loro noia è un vuoto di vita, un fallimento della materia che continuo a ritenere inespiabile, disturbante, per niente attraente.
Io non cerco la purezza, la virtù, né tanto meno ciò che si chiama vizio. Soltanto una mente debole ha bisogno di stampelle. Il bene e il male sono relazioni, costruzioni dentro lo spazio del desiderio, non semplici idee.
Ogni vivente ha la facoltà di costruire esperienze compiute. Il godimento erotico è un entusiasmo della materia, un’esperienza della compresenza (in un solo corpo) di tutti i corpi possibili del cosmo. È il culmine che ripropone, ogni volta, perentoriamente, l’origine indecidibile di ogni senso.
La sessualità umana è solo un modo per esperire l’entusiasmo della materia, i suoi possibili addensamenti sovrani, tuttavia esistono anche altri modi e altri ancora se ne possono inventare.
Ben prima di accordarsi su questo o quel modo, e di accapigliarsi sulla legittimità delle diverse pratiche, occorre ricreare un territorio comune, un corpus per le com-unicità dei viventi, mirando a sormontare le identità e le specializzazioni del godimento dettate dall’erotismo storicamente determinato.

L’amore comunemente inteso è un incasellamento storico dei corpi affettuosi, una concezione ridotta e determinata della comunanza. In altre parole, soprattutto in epoca moderna, ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare amore è la categoria che rende oggettivo e legittima socialmente l’affetto tra i viventi. Nata con la costruzione sociale dell’individuo, l’idea dell’amore raggiunge il culmine con la sua variante borghese e romantica, grazie alla quale si raggiunge anche l’apogeo di un patriarcato incentrato su monogamia, famiglia nucleare e rigida separazione binaria dei sessi. L’amore moderno si costituisce sul separatismo borghese della coppia ed è il solo amore riconosciuto normativamente da Chiesa, Stato e “società civile”. Il matrimonio monogamico, in origine strettamente eterosessuale, è il pilastro politico e culturale di un tale processo storico di riduzione. L’amore socialmente obliterato limita dunque i possibili della comunanza e regolamenta l’unicità degli affetti. Due esseri umani, opportunamente maschio e femmina, tengono fuori dal loro territorio sentimentale e sociale, almeno in via teorica, tutti gli altri viventi. Da un punto di vista topologico, l’amore diventa quindi una sorta di marcatura territoriale, una enclosure, una delimitazione rigorosa degli accessi e dei transiti nella cittadella romantica degli amanti. Ora, tutte le relazioni rigidamente normate, come per esempio il rapporto monogamico, sono sia accumulazioni di valori non immediatamente e irrimediabilmente consumati, sia una difesa e uno sfruttamento esclusivo delle riserve di valore costituite in precedenza. L’amore borghese, nella fattispecie, è il valore sentimentale socialmente determinato che funge da equivalente generale per tutte le relazioni affettive tra i sessi. Ciò significa che quest’amore (storicamente idealizzato, virtualizzato) fa le veci del denaro e permette di acquistare consensi sentimentali nel dominio del capitale. Non solo: esso, tendendo ad autonomizzarsi in quanto valore di scambio affettivo (e per nulla affettuoso), finendo cioè per essere un’astrazione, una valuta universale convertibile in affetto, diventa una forma di vero e proprio capitale emozionale. Ma come funziona realmente quest’amore, questo valore di scambio affettivo? La dinamica di base è piuttosto semplice. Se il desiderio o il godimento dell’uno è compiuto attraverso l’attività dell’altro, senza che nessuna violenza venga esercitata e nessuna subordinazione instaurata, significa che l’uno è capace di costruire e costituire, in modo affettuoso, amorevole, una parte del desiderio o del godimento dell’altro, e ciò, solitamente, in un rapporto di condivisione reciproca. Quando invece la mia attività è calcolata in funzione del tuo desiderio o del tuo godimento, asservita strettamente a una tale prospettiva, io vado creando soltanto in apparenza quella tua parte di desiderio o di godimento; in realtà, sto producendo un oggetto, l’oggetto del tuo desiderio, un godimento reificato che io penso di scambiare proficuamente conl’oggetto del mio desiderio, ovverosia col tuo godimento a sua volta reificato. Beninteso, lo scambio, in sé, non è il male. Ogni relazione è una dinamica di scambio. Non esiste relazione che non implichi uno scambio, un passaggio, una trasmissione. Ogni relazione è un interscambio tra unicità che costruiscono il medesimo e il differente, l’affermazione e la negazione, accettandone criticamente e affettuosamente il confronto, l’incontro, l’accordo. Nello specifico delle dinamiche amorose, l’affetto costituisce l’avvio della com-unicità, degli scambi emotivi, passionali, in quanto attivazione e risultante delle scelte inclusive che operiamo nei confronti dell’Altro a partire da un riconoscimento e da un desiderio di soddisfazione reciproci. Se viene a mancare l’affetto, lo scambio si perverte nella valorizzazione delle apparenze sentimentali, nella trasformazione del rapporto amoroso in un lavoro di di riduzione profittevole del negativo, laddove il negativo va visto anzitutto come l’unicità che va operando, contro le separazioni sociali, per la costruzione immanente di un entusiasmo condiviso, compiuto, replicabile. La singolarità affettuosa nega le conformità sociali della vita di relazione e trasforma in curiosità riconoscente la differenza riconosciuta. La negazione è l’affetto del vivente che va incontro alla differenza facendone uno strumento di conoscenza, di riconoscenza, e lo scambio tra gli affetti si compie ogni volta attraverso una consonanza che si presenta come l’immediato, il non mediato, nonché come la creazione di un mondo che contiene, almeno in potenza, concretamente, tutti i sessi e i generi dell’affetto.

Eppure, diciamolo, non è affatto facile cercare un’immediatezza, una rinnovata semplicità nei rapporti con l’Altro, tra i sessi socialmente normati. Incidono abitudini di pensiero e schemi comportamentali che vengono da molto lontano: dalle vicende intergenerazionali della propria famiglia, dalla storia del proprio ambiente sociale. Non è mai facile scalfire i rapporti materiali che banalizzano gli affetti o legittimano le mancanze verso gli affetti. Ci vuole lucidità e forza d’animo, e anche non poco coraggio, per andare a smuovere gli strati di assuefazione, rassegnazione e paura che contrassegnano le relazioni tra i viventi. Bisogna avere altresì la capacità di sviluppare un linguaggio realmente comune, capace di toccare le corde giuste, ma senza perdere troppo in immediatezza. Se non si parla all’Altro e non si permette all’Altro di parlarci, se non riusciamo a trovare forme e discorsi capaci di occupare la distanza, se ci ostiniamo a parlarci addosso senza ricreare i luoghi comuni di un’intesa, si apriranno davanti a noi, continuamente, gli spazi spaventevoli di un deserto emozionale. In tutto questo, però, occorre anche dotarsi della convinzione e della forza indispensabili per tagliare i rami secchi e sottrarsi agli eventuali vicoli ciechi. Soprattutto, bisogna riconoscere i sensi di colpa e liberarsene senza compromettere la nostra consonanza col mondo. Il senso di colpa è la dinamica che tende a “suicidare” lentamente l’unicità e l’intelligenza dei viventi; è il cuneo del potere (e dei micropoteri familiari, sociali, ecc.) che s’incastra nella carne viva dei nostri desideri pervertendoli e inchiodandoli miseramente a una politica quotidiana del compromesso.

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Ciao, Sandro. Un abbraccio.