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L’immagine forse più nota del surrealista Benjamin Péret (nato nel 1899 a Rezé, nei pressi di Nantes, e morto a Parigi nel 1959), quella che comunque ce lo restituisce in tutta la sua genuina intransigenza, è la foto dovuta alla prontezza di riflessi e alla presenza di spirito del giovane Marcel Duhamel che, nell’estate del 1926 a Plestin-les-Grèves, gli scatta un’istantanea mentre per strada se la prende con un prete che sta passando. La foto finirà poi sulle pagine della Révolution Surréaliste [1] con tanto di breve ma folgorante didascalia sul “nostro collaboratore Benjamin Péret che insulta un prete”. Il giovane Péret, entrato in contatto con Breton nel 1920 a Parigi, si getta da subito a capofitto nell’avventura dadaista per poi aderire successivamente a tutte le attività del gruppo surrealista storico. Dirige con Pierre Naville i primi due numeri de’ La Révolution Surréaliste, firma tutte le dichiarazioni collettive del gruppo bretoniano, partecipa alle sedute dei sonni ipnotici e abbraccia entusiasticamente la scrittura automatica. Del 1921 è la sua prima raccolta, Le Passager du Transatlantique, dove gli echi apollinairiani si mescolano alla vivacità e al nonsense tipicamente dadaisti [2].

Nel 1927, Péret aderisce al partito comunista, ma ben presto rompe con la burocrazia del PCF per avvicinarsi all’opposizione di sinistra. Sposa la cantante brasiliana Elsie Houston nel 1928 e l’anno seguente si trasferisce con lei in Brasile, dove verrà arrestato, incarcerato come “agitatore comunista” ed infine espulso il 30 dicembre 1931. Tornato in Francia, il poeta riannoda velocemente i suoi legami con gli amici surrealisti e partecipa attivamente alle iniziative politiche delle formazioni di matrice trotskista. Prima di partire per l’America Latina, Péret aveva pubblicato svariati testi automatici sia in prosa che in versi, tra i quali spiccava per vastità e bellezza la raccolta Le Grand Jeu (1928).

Nella prima metà degli anni trenta, l’attività dei surrealisti francesi raggiunge l’apogeo. E Péret resta costantemente in prima linea quando si tratta di lottare per i valori del movimento.

Il 1936 resta un anno memorabile per il nostro poeta: partecipa alla rivoluzione spagnola, combattendo anche con gli anarchici della Colonna Durruti, e pubblica alcune delle sue raccolte più riuscite, tra cui spiccano Je sublime e Je ne mange pas de ce pain-là (che è anche l’epitaffio inciso sulla sua tomba al cimitero parigino di Batignolles). Io non mangio di quel pane, in particolare, è di una violenza quasi unica nella storia della poesia. Péret si scaglia con un odio feroce contro tutti i simboli e le istituzioni che legittimano e mantengono in piedi il sistema di dominio. La veemenza sovversiva del poeta si appropria del linguaggio ordinario e stereotipato per stravolgerlo in funzione antiborghese nobilitando ogni parola, anche la più “prosaica”, senza fare alcuna concessione al lirismo [3].

Nel 1940 Péret viene mobilitato, ma a causa della propaganda rivoluzionaria che svolge tra i ranghi dell’esercito finisce in carcere a Rennes. Tuttavia, l’avanzata della Wermacht e il disordine generale lo portano dopo poche settimane a riacquistare la libertà (anche grazie ad un riscatto di 1000 franchi, anticipatigli da Picasso [4]). Rifugiatosi a Marsiglia, Péret s’imbarca per il Messico nell’ottobre ‘41 con la sua nuova compagna, la pittrice spagnola Remedios Varo. Resterà in Centro America fino al 1948, continuando imperterrito ad occuparsi di poesia, surrealismo e politiche rivoluzionarie. Inoltre, pur vivendo in condizioni estremamente disagiate, inizierà una serie di studi sulle civiltà precolombiane e sui miti dei nativi.

In Messico, elabora il suo scritto teorico più famoso, Les Déshonneur des poètes (pubblicato nel 1945) [5], che gli attira da subito le ire dell’intellighenzia francese a causa della sua durissima presa di posizione nei confronti dei poeti della Resistenza, tra i quali spiccavano gli ex surrealisti Aragon e Eluard, colpevoli ai suoi occhi di aver aderito alle parole d’ordine staliniste e nazionalistiche impegnando ideologicamente la propria poesia al servizio della politica culturale più retriva. A causa di questo pamphlet, estremamente duro per le critiche contenutevi, di un’intransigenza tanto impetuosa politicamente quanto lucida e conseguente nel suo tentativo di disimpegnare, disincagliare la poesia dalle mire normalizzatrici dei letterati di partito, Benjamin Péret viene obliato, infamato, cancellato dalle storie della letteratura, o, ancora peggio, quando si è proprio costretti a parlarne, si glissa puntualmente sulla sua diuturna attività rivoluzionaria, relegandolo invariabilmente in uno dei coni d’ombra proiettati da André Breton.

Eppure, nessuno meglio di Benjamin Péret ha incarnato fino in fondo e con estrema lucidità lo spirito autentico del surrealismo; i suoi versi spumeggianti e gli scritti teorici rigorosi e radicali che ha pubblicato nel corso della sua quarantennale attività di poeta e rivoluzionario ne fanno una figura essenziale, il cui rilievo, all’interno del gruppo francese, è stato sintetizzato efficacemente da Jehan Mayoux quando ha scritto che Breton ha costruito il surrealismo dall’interno, mentre Péret lo ha definito e fatto conoscere opponendolo a ciò che era altro [6].


[1] Per la precisione, sul n. 8 del 1° dicembre 1926 (p. 13).

[2] Le Œuvres complètes di Péret sono state raccolte in sette tomi (Losfeld/Corti, Paris, 1969-1995) a cura dell’Association des amis de B. Péret. In italiano si veda l’opera antologica: Benjamin Péret, Sparate sempre prima di strisciare, accompagnamento alla lettura di C. Mangone, Nautilus, Torino, 2001.

[3] Cfr. Benjamin Péret, Io non mangio di quel pane, a cura di C. Mangone, Edizioni Bi-Elle, Firenze, 2002.

[4] Su tale questione si veda: Trois cerises et une sardine [bollettino irregolare dell’Association des amis de B. Péret], n. 9, settembre 2001.

[5] Traduz. it. in Sparate sempre prima di strisciare, cit., pp. 74-81.

[6] Cfr. Benjamin  Péret, la fourchette coupante, cit.; ripreso in: Jehan Mayoux, La liberté est une et divisible, Éditions Peralta, Ussel, 1979, p. 103. Per la cronaca, “Peralta” era stato uno pseudonimo di Péret.



BENJAMIN PÉRET

Gli odori dell’amore

Se al mondo esiste un piacere
è proprio quello di fare l’amore
col corpo circondato da cordicelle
gli occhi chiusi da lame di rasoio
Lei avanza come un lampione
Il suo sguardo la precede prepara il terreno
Le mosche espirano come una bella serata
Una banca va in fallimento
scatenando una guerra fra unghie e denti
Le sue mani rigirano la frittata del cielo
fulminano il volo disperato delle civette
e rimuovono un dio dal suo trespolo
Lei avanza la mia adorata dai seni di limone
I suoi piedi si smarriscono sui tetti
Quale automobile folle
sale dal profondo del suo petto
Svolta affiora e s’immerge
come un mostro marino?
È l’istante scelto dai vegetali
per uscire dall’orbita della terra
Salgono come un’acclamazione
Sèntili sèntili
ora che il fresco
ti scioglie le ossa e i capelli
E non senti anche questa pianta magica
dare ai tuoi occhi uno sguardo di mano
sanguinante
                  radiosa?
Io so che il sole
            polvere remota
scoppia come un frutto maturo
se le tue reni rollano e beccheggiano
nella tempesta che desìderi
Ma che importa alle nostre iniziali confuse
dello slittamento sotterraneo delle esistenze impercettibili
quand’è mezzogiorno


Les odeurs de l’amour. Poesia tratta da Le Grand Jeu (1928).


Pronto

Mio aereo in fiamme mio castello inondato dal vino del Reno
mio ghetto d’iris nere mio orecchio di cristallo
mia roccia che scende la scogliera per schiacciare la guardia campestre
mia lumaca d’opale mia zanzara d’aria
mio piumino d’uccello del paradiso mia capigliatura di schiuma nera
mia tomba esplosa mia pioggia di cavallette rosse
mia isola volante mia uva di turchese
mia collisione d’auto folli e prudenti mia aiuola selvaggia
mio pistillo di soffione proiettato nel mio occhio
mio bulbo di tulipano nel cervello
mia gazzella smarrita in un cinema dei boulevard
mia cassetta di sole mio frutto di vulcano
mio riso di stagno nascosto dove vanno ad annegarsi i profeti distratti
mia inondazione di sciroppo di ribes mia farfalla di spugnolo
mia cascata azzurra come un’onda che fa primavera
mio revolver di corallo la cui bocca m’attira come l’occhio di un pozzo
scintillante
ghiacciato come lo specchio in cui contempli la fuga degli uccelli-mosca del tuo sguardo
perduto in un’esposizione di bianco incorniciato di mummie
io ti amo


Allo. Dalla raccolta Je sublime (1936).



Il disonore dei poeti

(…) I suoi innumerevoli detrattori [della poesia, NdT], veri e falsi preti, più ipocriti dei sacerdoti di tutte le chiese, falsi testimoni di tutti i tempi, l’accusano di essere un mezzo d’evasione, di fuggire la realtà, come se essa non fosse la realtà stessa, la sua essenza e la sua esaltazione. Ma incapaci di concepire la realtà nel suo insieme e nelle sue complesse relazioni, essi la vogliono vedere soltanto nel suo aspetto più immediato e sordido. Non vedono che l’adulterio senza mai conoscere l’amore, l’aereo da bombardamento senza ricordare Icaro, il romanzo d’avventure senza comprendere l’aspirazione poetica costante, elementare e profonda che ha la vana ambizione di soddisfare. Disprezzano il sogno a favore della loro realtà, come se il sogno non fosse uno dei suoi aspetti e il più sconvolgente, esaltano l’azione a scapito della meditazione come se la prima senza la seconda non fosse uno sport, insignificante come tutti gli sport. Un tempo, opponevano lo spirito alla materia, il loro dio all’uomo; oggi difendono la materia contro lo spirito. In verità, se la prendono con l’intuizione a vantaggio della ragione, senza ricordarsi da dove scaturisce questa stessa ragione. (…)
Ma il poeta non deve far sì che gli altri nutrano un’illusoria speranza umana o celeste, né disarmare gli spiriti infondendo loro una fiducia illimitata in un padre o in un capo contro il quale ogni critica diventa sacrilegio. Al contrario, è suo il compito di pronunciare parole sempre sacrileghe e blasfemie permanenti. Il poeta deve innanzi tutto prendere coscienza della sua natura e del proprio ruolo nel mondo. Inventore per il quale la scoperta è solo il mezzo per raggiungere una nuova scoperta, deve combattere senza tregua gli dei paralizzanti, accaniti a mantenere l’uomo schiavo delle potenze sociali e della divinità che si completano reciprocamente. Egli sarà dunque rivoluzionario, ma non di quelli che si oppongono al tiranno di oggi, nefasto ai loro occhi perché non serve i loro interessi, per vantare l’eccellenza dell’oppressore di domani del quale si sono già costituiti servitori. No, il poeta lotta contro ogni oppressione: innanzi tutto quella dell’uomo sull’uomo, e poi quella del suo pensiero da parte dei dogmi religiosi, filosofici o sociali. Egli lotta perché l’uomo raggiunga una conoscenza sempre perfettibile di sé e dell’universo. Ciò non significa che egli desideri mettere la poesia al servizio di un’azione politica, fosse pure rivoluzionaria. La sua qualità di poeta ne fa in ogni caso un rivoluzionario che deve combattere su tutti i terreni: su quello della poesia, con i mezzi che le sono propri, e su quello dell’azione sociale, senza mai confondere i due campi per non rischiare di ristabilire la confusione che bisogna dissipare e cessare così d’essere poeta e quindi rivoluzionario. (…)


Le Déshonneur des poètes (1945), frammenti.

Péret con la seconda moglie, la pittrice surrealista spagnola Remedios Varo.