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Il testo che segue è una versione intermedia (e molto più sintetica) del mio saggio apparso come prefazione al volume: Isidore Ducasse conte di Lautréamont, Dieci unghie secche invece di cinque, Giunti, 2005. Risale al novembre 2002 ed è a sua volta la rielaborazione radicale di un testo redatto nel primo semestre del 2001 ed apparso su un numero della e-zine Nux vomica. Ripropongo quest’ultimo dopo quasi dodici anni sia perché presenta numerosi passaggi poi espunti nella versione finale del saggio, sia perché sintetizza efficacemente quest’ultimo. Beninteso, ci sono parole abusate che oggi eviterei e frasi che riscriverei in un modo molto diverso, ma era inutile star qui a calibrare i termini quando il testo stesso (ed ogni mio testo) non fa altro che porre in discussione ogni termine[aggiornamento: della prefazione di cui sopra è disponibile una versione ampiamente rivista, aggiornata e pubblicata a se stante: Maldoror e la verità pratica. La si può scaricare gratuitamente < QUI >]

 

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I critici della società e i sedicenti “progressisti” hanno abusato spesso della propria intelligenza.
Tra questi, chi si è trovato ad accettare una strutturazione gerarchica del sapere – e un ruolo qualsiasi nella gestione specialistica del pensiero – ha finito quasi sempre per allontanarsi dalla realtà delle cose in favore di una pratica della rivolta meramente culturale. Per cui, se la memoria di questi figuri sembra infine estinguersi, è anche a cagione della poca dimestichezza avuta talvolta, nel bene come nel male, con il desiderio degli uomini. Detto altrimenti, se un approccio critico e conseguente può contrastare con successo l’abuso dell’intelligenza, è solo nell’ambito di rapporti interumani non mediati dai ruoli e dai meccanismi mercantili che può nascere e svilupparsi liberamente una pratica reale della critica. Ne consegue quindi, come logico corollario, la negazione decisiva di figure come quelle dell’intellettuale, dell’artista o del militante politico – le quali son tutte strutture rigide e ideologiche dell’essere sociale –, ma non certo il discredito, parimenti, di quelle espressioni dell’intelletto o dell’estro umano che si fanno strumenti di volontà ed empatia al di fuori dei processi di mercificazione.

Chi difende per partito preso le proprie idee, senza verificarne la rispondenza al vero sui piani variamente intersecati della realtà materiale e dell’azione umana, s’irrigidisce stupidamente in un uso strumentale e nevrotico della conoscenza. Il ruolo in cui ci si cala, dopo aver deposto le armi della critica, dà allora l’esatta misura della sudditanza del singolo nei confronti dei luoghi comuni del potere.

La cultura ha senso solo quando produce delle schegge di volontà, ossia quando dà vita ad esperienze di libertà che mettono in gioco le presunte certezze dell’io. Contrastare l’abitudine alle parole superflue può dare il giusto tono a chi si picca d’essere ancora in sintonia con la propria vita. Se noi non ci riconoscessimo talune mancanze, non proveremmo un così sfrontato piacere a voler evidenziare negli altri ciò che ci fa difetto. A coloro che sanno per cosa lottare, la morte è sempre parsa un lusso.

japon«La poesia deve avere per scopo la verità pratica», affermava Isidore Ducasse in Poésies II. Ma che cosa si deve intendere per “verità pratica”? E soprattutto: quali implicazioni bisognerà dare al termine “poesia”? La verità non è certo l’affermazione di un contenuto ideale e statico; semmai è quel movimento (quella pratica) che ha una piena rispondenza con la realtà effettiva, e che concretizza in sé l’azione autonoma e consapevole della volontà.
Con buona pace dei surrealisti, «si sogna soltanto quando si dorme» [1]. Sono la veglia, la lucidità e un rigore dell’oltranza a segnare altrimenti la pratica della poesia. Bisogna essere assolutamente svegli – per incalzare la mente sui sentieri della libertà incondizionata; per escogitare insorgenze nel dominio dello spirito; per annientare senza scrupoli ogni proposito letterario che sia funzionale a schemi mercantili e banalmente conformisti – verificando così costantemente la possibilità di una sovversione poetica. Ma delimitando il vero, dovremo individuare e quindi ridurre i nostri stessi limiti, affinché la consapevolezza dei confini raggiunti non ci vincoli mortalmente. «La famosa idea del bene» [2] si apparenta ironicamente con il rifiuto del destino.

Baudelaire era un reazionario. Mallarmé s’illuse. La patafisica è una stronzata… Solo Rimbaud e Lautréamont hanno voltato pagina, beffando il testo e i loro critici.

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Il ventiquattrenne Isidore-Lucien Ducasse, alias conte di Lautréamont (nome d’arte con cui aveva dato alle stampe Les Chants de Maldoror), viene trovato morto la mattina del 24 novembre 1870 nella sua camera d’albergo al n.7 di rue du Faubourg-Montmartre. La città di Parigi si trovava sotto l’assedio dell’esercito prussiano già da 67 giorni…
Sebbene le circostanze della sua morte restino tuttora un mistero – e per quanto la tesi del suicidio non possa di certo essere scartata del tutto –, fu probabilmente una “febbre maligna” a portarselo via (come sostiene tra l’altro Léon Genonceaux nella prefazione alla sua riedizione dei Canti di Maldoror del 1890).
Di lui ci restano i sei canti dell’epopea maldororiana, i due fascicoli delle Poesie (che raccolgono massime e pensieri di critica) e sette lettere, l’ultima delle quali, indirizzata a Victor Hugo, è stata scoperta appena nel 1980.

Il primo canto di Maldoror, pubblicato originariamente in una plaquette anonima, beneficiò di una recensione sul fascicolo del 1°-15 settembre 1868 della rivista La Jeunesse. La nota in questione, che è uno dei due soli scritti apparsi sull’opera di Lautréamont con lui ancora in vita, porta la firma di Epistemon (pseudonimo di Christian Calmeau) e dà uno schizzo del capolavoro ducassiano forse un po’ retrò, ma sicuramente profetico:

chantpremierMaldororIl primo effetto prodotto dalla lettura di questo libro è lo sbalordimento: l’enfasi iperbolica dello stile, la selvaggia stranezza, il vigore disperato delle idee, il contrasto del suo linguaggio appassionato con le più scipite elucubrazioni del nostro tempo, gettano da principio lo spirito in uno stupore profondo.
Alfred de Musset parla da qualche parte di ciò che egli chiama «la Malattia del Secolo»: l’incertezza dell’avvenire, il disprezzo del passato, ovvero l’incredulità e la disperazione. Maldoror è colpito da questo male; scettico, egli diviene malvagio, e volge in crudeltà tutte le forze del suo genio. Cugino di Childe-Harold e di Faust, egli conosce gli uomini e li disprezza. Il desiderio lo divora, e il suo cuore, vuoto sempre, si agita senza posa in cupi pensieri, senza mai poter raggiungere quello scopo vago e ideale che cerca e presagisce.
Noi non spingeremo oltre l’esame di tal libro. Occorre leggerlo per sentire l’ispirazione possente che l’anima, la cupa disperazione sparsa in queste pagine lugubri. Malgrado i suoi innumeri difetti, l’improprietà dello stile, la confusione dei quadri, quest’opera, lo crediamo, non sarà confusa con le altre pubblicazioni del tempo: la sua originalità poco comune ce ne è garante. [3]

Per descrivere la terra, non bisogna trasportarvi le idee del cielo. La critica non può più essere soltanto il giudizio sull’evidenza dell’opera; dev’essere altresì una verifica sulla prassi e sul movimento d’idee generati dall’opera stessa – prassi e movimento per i quali l’opera si costituisce come esperienza capitale e foriera di sviluppi. Occorre quindi determinare ciò che rende mutila l’opera di un poeta unitamente a ciò che ci obbliga a completarla nell’immediato.
Si elude la banalità della morte solo in uno sviluppo critico dell’esistenza. La vita – la coerenza degli eventi nell’arco di una precisa esistenza – è la continuazione della poesia con altri mezzi.

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Il movimento della verità è caduto in disgrazia presso coloro che pensano. E i vuoti dell’intelligenza ridimensionano amaramente la pretesa di chi osa ancora contrapporsi alla necessità.
Se la verità non è giudizio, né tanto meno valore, deve farsi adesione a un movimento concreto della volontà.
(Il testo non è che un pretesto).

Maldoror1_CampusI Canti di Maldoror furono stampati da Lacroix nel 1869, ma il libro non venne mai posto in vendita. Soltanto una ventina di copie fu brossurata e consegnata a Ducasse.
Il motivo della mancata distribuzione dell’opera è dovuto principalmente al rifiuto di Lacroix di mettere in circolazione un testo pieno zeppo di brani violenti e dissacratori. Il suo timore della “Sesta Camera” – l’organo deputato alla censura nella Francia dell’epoca – lo avrebbe dissuaso dall’ottemperare agli impegni presi. Ma probabilmente c’era dell’altro.
In un articolo intitolato “Lautréamont et le Dr Chenu”, apparso su Le Mercure de France del 1° dicembre 1952, Maurice Viroux rivela d’aver individuato almeno sei passi dell’Enciclopedia di storia naturale curata da Jean-Charles Chenu plagiati quasi testualmente da Ducasse all’interno dei canti V e VI. Viroux, da buon filisteo, grida al ladro, e ne approfitta en passant per bacchettare severamente il gruppo surrealista, reo ai suoi occhi di un “fanatismo settario, quasi religioso” nei confronti di ciò che egli definisce “lautréamontismo”.
Ora, come giustamente fa notare Pascal Pia (in Carrefour del 24 giugno 1964), i plagi scoperti da Viroux – ai quali ne vanno aggiunti diversi altri accertati in seguito –, potevano rischiare d’essere ravvisati già nel 1869, se Lacroix non si fosse rifiutato di distribuire il libro. Anche perché, ed è bene sottolinearlo, l’enciclopedia curata da Chenu (una cui ristampa era apparsa nel 1867) faceva bella mostra di sé in migliaia di case borghesi.

L’opera omnia di Ducasse è una sorta di parodica macchinazione in prosa ai danni della letteratura moderna: un apparato di cattura del senso che dispiega ironicamente sia la munificenza dell’irrazionale, sia le anomalie del bene, e che non risparmia niente e nessuno, neanche il suo autore.
Ma se Lautréamont è un enciclopedista del “mostruoso”, un alchimista del verbo convertitosi scientemente al saccheggio dell’immaginario romantico, e il suo Maldoror, portandosi ai margini di un mondo mistificato da tre secoli di umanesimo, pone la centralità paradossale di un oltrepassamento immanente del dato letterario, il Ducasse delle Poesie, viceversa, sembra giunto al punto di non ritorno in cui un letterato anticonformista deve rinunciare alla ribellione che è solo “sulla carta” per darsi finalmente un’azione efficace.
La sua critica della poesia, nonostante i limiti storici della propria elaborazione, ha lasciato indicazioni che andranno analizzate e sviluppate senza indugi da chiunque voglia darsi da fare per le future e formidabili agitazioni poetiche.

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Purtroppo, non tutti i poeti vengono per nuocere.
È probabile che il grado di attaccamento dell’uomo alla doppiezza di certe parole sia sempre misura, contemporaneamente, del suo grado di normalità più o meno degenere. Se si sfornano, senza la benché minima ironia, dei versi del tipo “Gli aligeri di diamanti fra i rebbi del letto” (o cose simili), si è certamente ad un passo dalla ritrattazione della propria intelligenza.
Per fortuna, in ambito poetico c’è chi bara al gioco delle tre carte solo per fregare gli ingenui. Cosicché «è un uomo o una pietra o un albero che va a cominciare il quarto canto» [4]. E la nettezza della frase s’infrange beffardamente contro il triplice soggetto allucinatorio. Ducasse incula Lautréamont che incula Maldoror che incula Ducasse, in un girotondo dei sensi posti vanamente alle calcagna del senso ultimo delle cose.

Fra le maglie di un testo ci possono essere delle idee, dei brani che vanno presi assolutamente alla lettera; perché palesano sprazzi, intermittenze esemplari di una lucidità per nulla emendabile.
Criticare l’opera di Ducasse non è mai stato particolarmente agevole, dal momento che essa già contiene in fieri la propria confutazione. Si tratta quindi di analizzarla cogliendo semmai le indicazioni e gli spunti critici che lo stesso autore vi ha disseminato intenzionalmente.
«Maneggiando le terribili ironie» [5], il poeta pone i fondamenti di un’agitazione che gli fa accogliere, più o meno consapevolmente, la medesima prospettiva della critica radicale del suo tempo. Agitazione poetica, quella di Ducasse, che lo conduce ad abbozzare una pragmatica morale della rivolta che è il contenuto manifesto delle Poésies, e che mette in discussione, perentoriamente, la validità e la sopravvivenza di ogni costrutto ideologico.
La prescrizione per cui «bisogna che la critica attacchi la forma, mai la sostanza delle vostre idee» [6], unita all’assunto secondo il quale la poesia «scopre le leggi che danno vita alla politica teorica, alla pace universale, alle confutazioni di Machiavelli, ai cartocci di cui si compongono le opere di Proudhon, alla psicologia dell’umanità»  [7], non significa altro che la volontà di rigettare il convenzionalismo delle “lettere”, come pure l’esigenza di legarsi al flusso degli eventi per darne, quanto meno, un senso univoco.

Il mutamento di prospettiva dell’agitazione poetica o è radicale, o non è (in nessun tempo) all’altezza della libertà.
L’ottica del critico dovrà essere la stessa del poeta. Che poi due baobab possano diventare due spilli [8], questo dipende sempre e soltanto dall’occhio di chi guarda, e dal tasso di poesia che si ha nel sangue.

lautreamontNon essendo né poetica semplicistica e convenzionale, né tanto meno opera compiuta in sé, la parola di Lautréamont ha chiaramente delle implicazioni antisistemiche. Volendosi come insurrezione contro le essenze del moralismo illuminista, come pure contro gli ideali romantici e i valori della società borghese, essa si schiera apertamente contro la metafisica e i suoi travestimenti moderni. Ma, parallelamente, insorge contro gli stessi termini coi quali va fissando le proprie mistificazioni.
La circospezione e la ferocia che vengono richieste al lettore  [9] sono necessarie proprio per il fatto che una tale sollevazione non si fonda su un pensiero definito una volta per tutte; che anzi, le contraddizioni del testo, i salti, i cambi di registro sono tanti e tali da costringere la prassi della lettura ad un continuo aggiustamento di prospettiva, pur restando fanaticamente dentro l’orizzonte rivoluzionario di tutte le libertà possibili.
La rivolta di Maldoror si apparenta storicamente con l’insurrezione invocata a gran voce dall’Unico di Max Stirner. «Se io esisto, non sono un altro. Non ammetto in me questa equivoca pluralità. Voglio risiedere da solo nel mio intimo ragionamento» [10]. L’io consapevole si ritrova quindi “egoista”, non per deviazione, natura o accidente, bensì sulla scorta di una scelta di campo quanto mai netta e risoluta.
Si è pienamente se stessi solo nella misura in cui non si è per nulla subordinati ai fantasmi e alle idee fisse della società. Facendo leva sulla positività, come sulla negatività della propria forza, le capacità del singolo fondano l’immanenza che stravolge la norma. «Si tratta soltanto di non farsi beccare -sostiene Lautréamont-. La giustizia stabilita dalle leggi non vale nulla; è la giurisprudenza dell’offeso che conta». [11]

Sotto ogni regime, l’individualità consapevole è stata taglieggiata, negata, mutilata; tanto dai filosofi e dai politici, quanto dai preti e dai medici. La storia della coalizione delle idee religiose, filosofiche e scientifiche è la storia di una spoliazione, di un occultamento della singolarità dell’uomo, a tutto vantaggio del proteiforme apparato di dominio nato in seno alla cristianità. L’io viene espropriato, le sue facoltà sono mistificate in alterità, incorniciate finanche da un’aura di sacralità (si veda Feuerbach) al fine d’impedirne ogni possibile recupero da parte del suo legittimo titolare: ossia dall’uomo mortale e in carne ed ossa, eclissato da quel mito dell’Umanità – sancito dal diritto borghese e consacrato democraticamente dallo Stato moderno – sul quale ancora oggi riposa il buon senso degli imbecilli. [12]

Il personaggio di Maldoror (dietro il quale occhieggia ironicamente l’autore) dispiega per centinaia di pagine la sua irriducibile singolarità. Ciò lo porta sovente a spazzar via tutto quel che s’interpone tra sé e la soddisfazione dei propri desideri. Tuttavia, in qualche rara occasione, Maldoror riesce a sentire dell’affinità, a nutrire della simpatia, a provare finanche dei sentimenti assai prossimi all’amore. Pur non sacrificandosi mai per il bene dell’umanità (astrazione di cui non sa che farsene), egli è indotto in certe situazioni ad associarsi con alcuni suoi “simili” in una sorta di stirneriana unione degli egoisti. [13]
A ben guardare, quest’unione sovrana, fondata sul godimento e sulla piena reciprocità relazionale, lui la brama incessantemente: «Cercavo un’anima che mi somigliasse, e non potevo trovarla. Frugavo tutti i recessi della terra; la mia era un’inutile perseveranza. Eppure, non potevo restar solo. Avevo bisogno di qualcuno che approvasse il mio carattere; di qualcuno che avesse le mie stesse idee». [14]

Maldoror è “maledettamente” unilaterale. Approfitta della società e ne gode. Si pone ai margini della comunità e la sgomenta. Abusa delle strutture morali consolidate e ne trae giovamento per la propria unicità. Dissolve, annienta ogni struttura di potere (in quanto idea metastorica) e la sostituisce, nella pratica quotidiana, con un’associazione informale tra egoisti. È la quintessenza del ribelle, quindi, ma è un ribelle che ancora risente di troppa zavorra nichilista. Se ne libererà poco alla volta solo facendo propria una nuova idea di comunanza.
In chiave materialista, l’esortazione di Ducasse ad una poesia interumana sganciata dalla letteratura e che accolga e sviluppi in sé la propria critica – esortazione che è il principale dettato teorico delle Poésies –, ne è di certo l’argomento più decisivo e conseguente.

mangone_lautreamontIl ruolo giocato da Lautréamont in ambito letterario è considerevole. Insieme al Divin Marchese, è colui che ha osato portare una mano sacrilega sull’edificio della metafisica occidentale, sul dominio dell’etica, su Dio, e a porsi per di più in un’ottica non semplicemente negativa (a differenza di Sade). Il maledettismo di Maldoror, dopo aver affrontato strenuamente Dio e gli uomini, non esita a dare forma al suo scarto massimo, generando quelle contraddizioni che andranno poi a risolversi, in concreto, nelle dichiarazioni di principio delle Poésies.
In morte di Maldoror, la letteratura s’inceppa. Ducasse è il primo ad aver proclamato la necessità, per salvare la poesia, di liberarla senza indugi dal pensiero dei poeti. La condanna dell’evasività, della debolezza, della mancanza di rigore (nel bene come nel male), pone il poeta della verità pratica al di là del verbalismo ipocrita. La sua risolutezza epigrammatica, lungi dall’essere sintesi hegeliana (e quindi superamento), è molto più “diabolicamente” un aggiustamento eversivo del senso comune. Le stesse parole ritornano; ma ricusando puntualmente altre parole, introducono di soppiatto, nell’ordine stesso del discorso, il senso esemplare dell’esperienza.

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Se la poesia va intesa come un’attitudine libertaria nei confronti del mondo circostante, al fine di goderne più o meno compiutamente (non avallando certo le idee o la mancanza d’idee di coloro che gestiscono o legittimano il potere), allora la stragrande maggioranza dei cosiddetti poeti non ha niente a che fare con la poesia. La poesia comunemente intesa si limita soltanto a dei cambiamenti sul piano delle immagini (più che altro mediante le parole) impiegandosi pertanto nella gestione delle presunte alternative alla logica dominante del discorso. Tenendosi quindi al di fuori dei conflitti, il poeta non fa altro che celebrare periodicamente una ricognizione idealistica e patetica della propria libertà di parola.
Il credere che la poesia – o per meglio dire: l’aura che circonfonderebbe l’idea di poesia – sia o possa diventare un bisogno dell’uomo, ciò è semplicemente ridicolo. La poesia autentica è più semplicemente una tensione, una logica del desiderio che dà senso ai reali bisogni di chi vive, e che come tale si volge immancabilmente contro le strutture sociali che la vincolano.

vin MaldororIsidore Ducasse nutriva chiaramente delle ambizioni letterarie. Ciò emerge in maniera inequivocabile dagli scampoli di corrispondenza che ci sono rimasti. [15] Ma era il padre – François Ducasse, cancelliere presso il consolato francese di Montevideo (dove Isidore era nato il 4 aprile 1846) – a pagare di tasca sua le spese di stampa delle opere del figlio. La cosa che però sconcerta è semmai l’ingenuità dimostrata da Ducasse nel pretendere bellamente che opere come Les Chants de Maldoror o Poésies, all’epoca prevedibilmente indigeste, potessero consentirgli di farsi varco nel milieu letterario del secondo Impero. Con ogni evidenza, egli aveva sovrastimato le capacità ricettive dei suoi contemporanei – forse sulla scorta della notorietà di alcuni poeti maudits come Baudelaire – non rendendosi conto (ma è mai possibile?) che l’apparato mistificatorio ordito dai suoi testi, essendo un rimaneggiamento sardonico delle convenzioni letterarie (soprattutto di quelle romantiche), minava pericolosamente l’arte e se ne faceva beffe, anticipando così di oltre mezzo secolo la critica dada e surrealista.
Le stesse Poésies – che dovevano rappresentare, nelle intenzioni più o meno sincere dell’autore, un passaggio netto dal male esaltato nei Canti al bene di una nuova prassi etica –, sono in realtà un attacco durissimo nei confronti di tutta la letteratura dell’Ottocento. Uno che mette sullo stesso piano Byron e un noto assassino dell’epoca come Troppmann, o schernisce Victor Hugo, non può certo sperare di esser preso sul serio dalla critica borghese! D’altronde, il fatto che Ducasse abbia usato uno pseudonimo (e all’inizio persino l’anonimato) per pubblicare il suo Maldoror, la dice lunga su certe sue preoccupazioni di ordine pratico – che però non lo hanno affatto dissuaso dal portare poi a compimento la sua opera di discredito dei letterati.

La poesia deve essere fatta contro tutti. E non da uno solo. Povero Luzi! Povero Carifi! Povera Merini! Povero Giudici! Povero Caproni! Povero Calasso! Tic, tic, e tic. [16]
La critica della poesia è più semplicemente la sua realizzazione pratica. Ostinarsi a scrivere o a blaterare insipienze sull’amore, sulle stelle o sulla rivolta dell’uomo è quasi sempre un abuso di parole che sospende o surroga banalmente l’esperienza di ciò stesso di cui si parla. Questo non vuol dire che sia inutile o superfluo inanellare delle parole; bisogna solo farlo come se non fosse di per sé il fine precipuo, scansando quindi, rigorosamente, sia la palude dei buoni sentimenti, sia la commedia trita e ritrita di una rivolta che resta solo sulla carta.

Evitare una trasposizione letteraria e manierata della rivolta non significa necessariamente che bisogna innalzare barricate o incendiare chiese e municipi – il che, beninteso, rimane pur sempre cosa assai lodevole –; molto più concretamente, bisogna sviluppare la tensione poetica che emana dall’individualità creatrice nei rapporti materiali e interumani della quotidianità. Una tale tensione (che si afferma nella presenza stessa di comunanze singolari) è la sola logica materiale che dà un senso all’agitazione dell’uomo.
Sovversiva è l’idea su cui invano la parola crede d’accamparsi. Attraverso il riscontro del proprio essere, il poeta della verità pratica cerca l’unisono; non si accontenta di una ricomposizione, di una reciprocità delle differenze. Quantunque senza fideismo, l’unisono delle presenze singolari è come un frammento di assoluto, materializzatosi in modo memorabile nei rapporti reali col mondo circostante.

(Non ci sono lettori innocenti. L’interpretazione è sempre un furto, una sottrazione, un darsi credito al cospetto dell’incognito; ma è anche accoglimento, se si aderisce all’opera per farne volontà partecipabile.
La ricerca di un senso – talvolta appena presagito per il tramite dell’opera – passa quindi ironicamente attraverso l’altro da sé).

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1 Poésies I.
2 Ibid.
3 Cfr. Jean-Jacques Lefrère, Isidore Ducasse, Fayard 1998, p. 357.
4 Les Chants de Maldoror, IV, strofe 1.
5 Maldoror, II, 3.
6 Poésies I.
7 Poésies II.
8 Cfr. Maldoror, IV, 2.
9 Cfr. Maldoror, I, 1.
10 Maldoror, V, 3.
11 Maldoror, II, 6.
12 Cfr. Maldoror, I, 9: «La grande famiglia universale degli umani è un’utopia degna della logica più mediocre».
13 Si pensi qui all’episodio dell’accoppiamento con lo squalo femmina (II, 13) o alle furiose cavalcate in compagnia di Mario (III, 1).
14 Maldoror, II, 13.
15 Cfr. per es. la lettera a Verboeckhoven del 23 ottobre 1869: «Quel che vorrei, è che fosse fatto il servizio stampa ai principali critici del lunedì. (…) quel che desidero sopra tutto, è di essere giudicato dalla critica, e, una volta noto, tutto andrà da sé».
16 Cfr. Poésies II: «La poésie doit être faite par tous. Non par un. Pauvre Hugo! Pauvre Racine! Pauvre Coppée! Pauvre Corneille! Pauvre Boileau! Pauvre Scarron! Tics, tics, et tics».