Qui di seguito potete leggere il quinto paragrafo del mio Quest’amante che si chiama verità (edizioni Gwynplaine, 2014).
L’illustrazione che accompagna il post è un dettaglio del Papiro di Ani, reperto egizio risalente al 1500 a.C. e conservato al British Museum.
Solo gli dèi riescono ad accordarsi con la morte. Infine liberi dal ruolo di salvare l’umanità, solo gli dèi giocano con la carne del mondo vivendo la propria morte senza fine.
Nella mitologia egizia, Osiride viene ucciso e smembrato in quattordici pezzi dal fratello Seth e torna in vita solo grazie alla bocca di Iside.
Incantamento o fellatio, poco importa. Nel mito, la parola è seme, tentazione o tentativo di luce, violenza sulla morte – che però vince sempre, vince ogni volta; quantunque la morte uccida la carne, non l’idea della vita.
Iside resuscita Osiride succhiandone il cazzo. Lo fa venire nella propria bocca. Lo prende in sé per concepire una sovranità contro natura – e non una natura senza sovrani.
Dato o ricevuto, piantato o perso nel vento, il seme dell’idea si sceglie sempre un corpo caldo.
Il bianco invade il nero senza tradirlo. Sposa il rosso. Reca in sé il caldo che fortifica. Conduce la guerra contro le ceneri del pensiero.
– Il mio sperma è una parola di troppo, un troppo del linguaggio, sempre sull’orlo delle tue labbra, e che mi fa venire al mondo in una nuda esposizione del senso.
Ti regalo la morte della parola riempiendoti la bocca, ma non ti sospendo ai relitti di discorso che vi galleggiano.
Torrente eracliteo, la mia sborra. Non ti dice due volte lo stesso godimento. Non si sedimenta nel tuo discorso. Non genera parole bastarde.
L’ordine del sapere viene stravolto in una traversata incessante: da una riva all’altra, da me a te, da te a me. Ci facciamo ponte, ci estendiamo – saliva corre su di me, acque di desiderio a rapirmi – e non si tratta del carattere locale del pensiero; la tua bocca sorride intorno al mio cazzo, la carne ci incita all’evidenza, al transito, al meravigliosamente comune – e tutto questo mi unisce ad una materia che si concede senza sacrificio, senza ingiunzioni.
Nella sua parte di chiarezza, e di gioia feroce, comune vuol dire che c’è ed è in atto l’estensione sensibile di due o più presenze amorevoli, le quali pensano, fremono, godono insieme.
Quando il corpo ha sete, bisogna invocare la pioggia. E invocare la pioggia significa sollecitare le fratture della materia provocandone gli umori.
La materia muore, si ricombina. Il cielo è immenso. Non ne vedrò mai la fine dentro la mia fine.
Sotto l’immensità del cielo, tu mi stai davanti, in ginocchio, senza pregarmi. E ti dài da fare, mi lecchi, mi fai ansimare come un animale che crede di poter sfuggire al macello.
Pochi istanti, ci servono solo pochi istanti per ritrovare la porta verso l’esterno dei mondi uscendo allo scoperto attraverso l’altro; incompleti come sempre, ma belli, belli da rasentare tutto il fuoco del mondo.
[Se Dio ti viene in bocca, lo chiameresti amore?]