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[ Paragrafo 14 di Quest’amante che si chiama verità (Gwynplaine, 2014). Foto di Die Sequenz. Sul tema della violenza cfr. anche la parte centrale di La qualità dell’ingovernabile, in particolare le pp. 27-47.]
Dopo ogni libertà, il tuo odore resta attaccato anche al mio più semplice destino. Posso oppormi alla pietra, alla solidità del vincolo, non al soffio che mi prende e s’avvita nella testa.
C’è chi scrive e crede di comunicare qualcosa. C’è chi si crede un poeta.
Io non comunico niente; cerco solo di fare la mia vita – e di farmi la tua. Trovo già faticoso restare umani senza divenir pedanti nei confronti di se stessi. E dovrei anche sobbarcarmi i vostri dubbi? – Siete voi il mio dubbio.
C’è una parte dell’umanità che non ha niente del candore e dell’amore intraspecifico che caratterizza gli altri mammiferi. Noi umani ci riveliamo spesso antiumani, e per motivi che hanno più a che fare con il controllo dell’esistente che con la vitalità e la gioia del possibile. Ci uccidiamo per paura, per difendere territori ideali (le “patrie”) o per cose immateriali che esistono solo nel pensiero asservito e che non tocchiamo con mano, né sono mai state davvero toccanti (come ad es. il valore astratto e autonomizzatosi che si chiama capitale). Non siamo predatori fieri e compassionevoli, no, siamo cecchini vili, imbalsamatori dell’amore, animali gregari e contro natura.
E da dove nasce la violenza degli umani civilizzati? Da cosa è generata una certa furia omicida o suicidaria tipica degli umani e che li avvicina semmai ad alcune specie di insetti?
Ogni nostra azione nasce da una sollecitazione presunta o reale (anche solo probabile) che mette in gioco il nostro insieme di carne e pensieri. Basta anche solo la percezione di questa possibilità. – Così la paura, così il vuoto che alloggia in noi imperioso e che annienta il respiro ponendo dighe all’ossigenazione della libertà.
Brutta bestia, la paura. Siamo terrorizzati al solo pensiero di perdere quel poco di dimestichezza con l’esistente che riteniamo di possedere dentro il nostro mondo. Abbiamo paura che la vita degli altri – la loro stessa presenza – sia l’anticamera della nostra morte biologica o simbolica. Crediamo spesso che gli altri ci privino di qualcosa d’essenziale, quand’invece non sappiamo neanche come coglierlo l’essenziale, non riuscendo certo a viverlo da soli, e sfoghiamo allora sugli altri la nostra incapacità ad ospitarlo, a ricrearlo dentro i nostri giorni, dentro il corpo carnale del mondo – unica realtà delle relazioni e unica relazione con la realtà, questo corpo, questa realtà che io conosco e attraverso la quale mi si può conoscere, ma solo se oltrepasso il mio risibile Io vivendo criticamente (eppur gioiosamente) il movimento stesso delle relazioni.
La violenza non nasce semplicemente dalla paura e non può essere isolata in categorie politiche o culturali. Non esiste violenza in vitro. La violenza è sempre dentro le relazioni dell’umano civilizzato.
D’altronde, ciò che viviamo come violenza non è portato simbolicamente dalla follia o dall’ignoranza. Esiste certo una follia che salva dalla violenza (le cosiddette psicopatologie non sono spesso un ultimo ed inconsulto rimedio contro la violenza della società?); resiste fra le pieghe dell’esistente un non sapere che è sensibilità spontanea, bellezza radicale, lotta contro il regime dei numeri (e non certo una patetica recrudescenza della nostra idea di “natura”); si manifesta pur sempre, in molteplici espressioni, una violenza senza padroni e senza volto che è sorda opposizione alla violenza organizzata e “scientifica” ordita dal potere economico-statuale. Detto questo, bisogna considerare la violenza come una “qualità” delle relazioni umane, che nasce e si sviluppa all’interno del contesto sociale (e del pensiero socializzato). Una “qualità” abbarbicata ai limite dell’esistente e che s’innesta ovunque: nei nostri movimenti singolari, nei nostri amori, nelle nostre contraddizioni – come un parassita considerato funzionale dagli stessi viventi che parassitizza.
La violenza riguarda la vita ridotta in società. Il numero genera una complessità innaturale, che noi chiamiamo “civiltà”, e che ci logora, ci vampirizza. I legami essenziali, che prosperano in piccoli territori, regalandosi però grandi aperture e molteplici migrazioni (pensate all’idea dell’amore e a quanto sia ancora legata ai piccoli numeri, ad una totalità ideale dentro i piccoli numeri; pensate anche a come venga pervertita dentro le astrazioni di massa o le religioni, dentro la necessità che l’amore sia utile per la società), questi legami essenziali evocano sulla carta una possibilità, un tentativo, una costruzione di senso.
Quando una tale costruzione vacilla o viene impedita, la violenza chiude le porte e brucia la casa dei legami mancati.
Mi spiace quindi per le anime belle, ma la violenza, in ambito sociale civilizzato, è ineliminabile ed è ormai radicata nei flussi di sopravvivenza dell’umano. Non la si può quindi sradicare senza estirpare la stessa sopravvivenza e le sue brutture. Il che non significa necessariamente ciò che temete, ma comporta di sicuro qualcosa che dovrete affrontare dentro le vostre paure di domani.
Qui non si tratta di eroismo. Qui si tratta di non aver paura della propria mortale unicità. E la nostra unicità nasce nel flusso delle relazioni che abbiamo con l’altro. Con amore. O per contrasto. Nasce e ci conduce per mano, fino alla fine. Riconoscerla, e viverla fino in fondo, significa eliminare i vuoti tra noi e il mondo, in modo da sovrapporre territori, costruire tracciati insieme agli altri, praticarli, infittirli, oltre la comunicazione, oltre i simboli stessi della circolazione, per toccare, toccarsi, costruire aderenze, anticipare le mosse della morte, e ciò in ogni vita, in ogni battito comune.
Perché ferire gli altri per difendere una propria integrità? Perché non occupare le loro ferite per liberarle e liberarci da ogni idea di integrità?
– I desideri sono come spore. Spore di resistenza. Anche il sesso di questo mio pensiero è una spora. Ma la sua attivazione potrà avvenire soltanto grazie a te.