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Siamo definitivamente vivi solo quando il crollo del pensiero ci rivela all’immane urgenza di un orizzonte.
Le quattro mura in cui veniamo costretti dalla ragione – anche quando pensiamo l’unicità – soprattutto se pensiamo l’amore – queste mura vanno abbattute.
Per creare una continuità, tra me e te, devo poter salvare la sorpresa di trovarti in ogni nuovo giorno.

Assediare l’albero della conoscenza comporta puntualmente un’impasse. E non possiamo sprecare le nostre energie nel tentativo superumano (e patetico) di scalarlo, potarlo, ecc. Urge invece una teoria di rampicanti, un’alleanza che si scopra facilità d’appoggio. Bisogna abbracciare la corteccia dell’esistente per creare una base comune senza perdere l’irriducibilità degli elementi essenziali in gioco. Le parole devono diventare viticci, amiche intime di ogni piega della vita.

La dinamica dell’amore non è la differenza, bensì l’emergenza, l’irrompere di una comune volontà di vivere, la quale, proprio perché si costruisce in comune – ossia nel movimento di una comunanza vagliata, scelta, condivisa –, esalta i singoli a partire da quelle parti della propria unicità che essi rinvengono l’uno nell’altro.

La scelta sarà molto simile al camminare a piedi nudi sulla terra bagnata. Regnerà ingenua come una burrasca. E nessuna ruga si pervertirà in canale di scolo del tempo. Solo un fulmine, un piccolo fulmine improvviso, verrà a ricordarci che la vita accade e che queste parole non vestiranno ancora a lungo l’alea delle scintille. Monotono come un bimbo, parlo a te, parlo a tutti.

 

21 maggio 2012. Frammento confluito in Infilare una mano tra le gambe del destino (Asinamali edizioni, 2015). Foto: Sébastien Tixier, Histoires de Vies Ordinaires 5, 2012.