Testo confluito nel libro Quest’amante che si chiama verità (edizioni Gwynplaine, marzo 2014). L’audio è stato registrato il 20 marzo 2014, con un banale smartphone Samsung. Il dipinto riprodotto di seguito è dell’artista spagnolo Mario Sanchez Nevado (“Deep”).
Non so dell’eterno, non so del gran vuoto che avrò, ma permetto ai miei passi una decisione calda e senza più direzione.
Perché calpestare l’erba senza piangere linfa? Perché adornarsi di sorrisi senza disselciare le città?
Mostrare all’orizzonte che anche noi sappiamo tirar linee. Possedere un vaglio per le pretese. Denudarsi senza scambio.
Anch’io ho rami, organi ruminanti e una scia di ioni luminosa.
Mi muovevo tra i luoghi comuni di una cella enorme. Toccavo il pensiero, lo palpavo sotto la scorza dei concetti. Mettevo insieme consistenze che mi avrebbero lanciato nella continuità.
Fui io a scagliare la prima pietra contro il sole. L’euforia nasce sempre dal galleggiamento del fuoco. Ma non sapevo che si sarebbe trattato d’invadere addirittura me stesso. Stanza dopo stanza, battaglione dopo battaglione, gli alberi intricavano la vista, l’andamento stentava, eppure il bambino continuava imperterrito a correre davanti a tutti e a saltare a piedi uniti in ogni pozzanghera.
Mi si colorò di bel tempo la mente.
C’era un azzurro tenace in ogni mancanza di parole, in ogni carezza.
– Togliti i sandali, sbottona la ragione. Cammina sull’uomo che sei senza calpestarlo.
La voce divenne un corpo. Un corpo ironico e fatto di molti viventi.
Ero stato un futuro. Sarei stato un passato.
La presenza urgeva. Il punto di condensazione, la mano del sole che squarcia nubi nere e mi tocca.
La luce non ha giudizio. Il papavero non ha giudizio.
Voglia di sanguinare senza più guerra. Voglia di te e di me senza un noi (e pur con tutto ciò che siamo e saremo).
Mano nella mano, valichiamo l’ora.
Oltre, qui, come turbinio di pollini nella lucentezza del giorno.
11 gennaio 2013.
posso rebloggare? un saluto e grazie 🙂
Certo! Grazie a te.
L’ha ribloggato su L'arte di dimenticaree ha commentato:
Voglia di sanguinare, senza più guerra… sì, così.
ma che bello questo scritto!,
Il bambino può possedere la felicità del gioco totalizzante, senza tempo né coscienza del fluire: vive.
Grazie, Nicoletta, grazie mille.
Questo frammento, peraltro, chiuderà la prima sezione del mio prossimo libro, che esce ad aprile 2014 e che ho finito di rivedere proprio in questi giorni (devo ammettere di essere molto soddisfatto del risultato finale, io che son solitamente pignolo e anche troppo autocritico…).
Ho avuto un’infanzia strana, con ampi sprazzi di sereno, ma anche con improvvisi scrosci temporaleschi. Da ragazzo giocavo in strada, leggevo avidamente, cercavo di ritorcere contro gli altri in modo istintivo la violenza che respiravo in famiglia, a scuola, nel sociale. Il mio anarchismo nasce da lì. Era già in moto prima che io leggessi Stirner o Malatesta.
Non ritengo di avere avuto un’infanzia e un’adolescenza felici, ma sono state le mie e le sto “riprendendo”, oggi, a quasi 46 anni, perché voglio capire cosa ne è rimasto e dove si sono impigliati questi eventuali rimasugli.
Il motivo è semplice: da piccolo mi è mancata la tenerezza e sto cercando di costruirmene una, faticosamente, cocciutamente, andando anche contro alcuni aspetti della mia stessa personalità (impostata fin troppo, ahimè, in modalità “combattente”).
Il bambino vive, si lascia fluire. È colui che ammazza il tempo cronologico lineare, proprio perché non ne ha cognizione. Vive in uno spazio-tempo tutto suo. Sono gli adulti a deformarne e a frammentarne poco alla volta quest’adorabile e crudele densità originaria.
in famiglia ero perennemente in guerra ma i pomeriggi passati ad esplorare fossi in secca con una specie di volta vegetale, lunghissimi, grandissini, e il pioppeto, e il fiumiciattolo…che avventure! lì gli adulti ci venivano raramente…mi capita ancora di provare meraviglia, ma non spesso, leggerò il tuo libro, grazie!
impossibile non leggerti con un nodo in gola.
grazie per il consiglio musicale.
Pensa ad una giustizia dell’erba, se il vento potesse portare semi in fondo agli occhi di una testa decapitata. Non una testa decapitata qualunque, ma quella del giornalista della trasmissione del momento e dei suoi guardiaspalle, portaborse, tentacoli destri, sinistri, celesti o infernali, più tutta quella folla che urla quel “a morte” di fronte alla forca dove impiccano lei stessa. Ah, i telemorenti! Pensa se il vento potesse portare i semi delle erbe in fondo agli occhi di quelle teste decapitate e da lì, come dal naso e dalle orecchie, da quella struttura che sta tra le spalle, piegate dal capitalismo spettacolare, e il cielo rigato dal passaggio delle merci volanti, far crescere i suoi steli ed esplodere nel cerchio frammentario e graficamente geometrico dei fiori. Pensa come sarebbe più utile rinunciare all’utile e non vederlo più, affogato dal traboccare della bellezza fuori dal vaso di tutte le gocce di una sovversione infantile che scava la terra e gioca col lombrico, alla ricerca della sua propria clorofilla.
Pensa alla pietra. E al movimento dell’immobile.
Mi mancano le parole per comunicarti il senso di bellezza che ho provato leggendo.
Non una bellezza propriamente stilistica, non propriamente “poetica”.
Come quando guardi un tramonto. Nella sua semplice, banale ricorrenza di tutti i giorni che sa comunque riempirti e stupirti.