[Update del 18 dicembre 2013: in testa al breve scritto di Gerri Malerba, segnalo volentieri un progetto di documentario su un’esperienza di permapicoltura nel Lazio. Il film è ideato da Rossella Anitori e Darel Di Gregorio. Si veda per maggiori info la loro pagina su Facebook: Il tempo delle api. Dopo una prima, positiva raccolta fondi su Produzioni dal Basso, è partita una nuova campagna di crowdfounding su Indiegogo. – CM]
* * *
Personalmente ho sempre creduto che, all’avvento di una socio-macchina così complessa, tecnologizzata e dedita ad un controllo capillare, fosse di primaria importanza recuperare quanto più possibile di quell’infinito sottobosco di competenze umane perdute – nella misura in cui tali competenze contribuiscono a creare autonomia per noi stessi e/o i nostri affini, le nostre “comunità amorose” (cit.).
Non è una questione di poco. In tessuti urbani metropolitani (dalle metropoli vere e proprie fino ai nuovi quartieri non-luogo alla periferia delle città minori), pensare di rendere più “sostenibile” l’ambiente circostante è, nel migliore dei casi, ingenuo. Per lo più, in malafede.
In un contesto concepito per uno specifico obiettivo, ovvero gestire i flussi di denaro e merce (persino della “merce umana”, o delle “risorse umane”, per dirla all’aziendale-maniera) troviamo davanti a noi, che lottiamo per una demilitarizzazione del nostro spazio naturale, infinite “barriere architettoniche”: va da sé che i leitmotif ecologisti e cittadinisti andranno messi da parte una volta per tutte, andando a muovere una critica ben più profonda, basilare; ovvero, ad esempio, contestare l’essenza stessa del lavoro.
Una tale critica, che in questa sede non approfondirò oltre teoricamente, trova riscontri pratici in sistemi metodologici come quello della permacoltura o, meglio, dell’agricoltura naturale di Masanobu Fukuoka1; qualcuno, probabilmente, storcerà il naso al sentire citare queste pratiche e questo a causa dell’enorme lavoro di recupero che vari movimenti di ecologisti (e cittadinisti in senso ampio) stanno esercitando per reintegrare la componente – passatemi il termine – rivoluzionaria delle pratiche dell’agricoltura del non-lavoro e per spegnerle nel grande calderone istituzionale. Come fa il movimento delle Transition Towns, ad esempio. Tuttavia, credo che ciò non dovrebbe scoraggiarci dal riappropriarci del buono che è insito in queste pratiche, e nella loro alta capacità potenziale di renderci più autonomi dal tessuto urbano e dalle ragioni che hanno portato alla creazione di questo tessuto. Ma sto mettendo troppo sul fuoco.
Una pratica specifica su cui mi sono soffermato da un paio di anni a questa parte è quella dell’apicoltura; anche le api hanno pagato lo scotto dello sviluppo, vedendo decimata la loro popolazione a causa di 3 principali fattori:
- Drastica diminuzione ed impoverimento degli spazi verdi a causa dell’urbanizzazione.
- Introduzione, a causa del commercio globalizzato, dell’acaro Varroa.
- Inquinamento dell’aria, con particolare riferimento all’uso di pesticidi.
Insieme a questi fattori ambientali, gioca un enorme ruolo la progettazione delle moderne arnie Dadant-Blatt (le arnie “razionali”) le quali, pur avendo rappresentato un’enorme innovazione rispetto ai tradizionali bugni villici2, rimane pur sempre un sistema artificioso e concepito per perseguire una produzione “economica”, anziché il benessere delle famiglie di api.
A tal proposito sono entrato in contatto, tramite degli amici di una comune agricola di Velletri (RM), con le sperimentazioni di Oscar Perone, apicoltore argentino che, attraverso anni di sperimentazione (pur poco documentata), ha cercato di applicare i principi ed il modus operandi della permacoltura all’attività apistica; da questo connubio, si è andato definendo un nuovo modo di concepire il rapporto, in realtà già molto stretto, tra ape ed uomo: la permapicoltura. Questa pratica viaggia in una direzione diametralmente opposta rispetto alla logica della produzione del miele e, come accennato, mira a creare un ambiente quanto più adatto al benessere delle api, laddove dal loro benessere deriva un benessere per tutta la biosfera, uomo incluso.
Le arnie permapicolturali sono costruite per simulare l’ambiente di un albero cavo: esse non presentano telaini, fogli cerei prestampati, entrate forzose o trappole di sorta: la famiglia di api ha a disposizone una larga camera per il nido, a partire dalla quale costruisce i favi in piena libertà, gestendo i propri spazi secondo le esigenze peculiari non del genere apis, non della razza, ma della specifica famiglia che si trova a dover costruire la propria sistemazione.
Questa autonomia porta le api ad adottare le soluzioni ottimali per la loro famiglia, autogestendo il più possibile gli spazi e (qui l’aspetto più importante) conservando energie per altre attività, come la raccolta e, soprattutto, l’igiene dell’alveare: nella maggioranza schiacciante dei casi, infatti, le famiglie di api “allevate” con i principi della permapicoltura riescono a gestire la piaga della varroa senza l’ausilio dei rimedi comuni dell’apicoltura moderna (timolo, acido ossalico, acido formico, ecc…).
L’intervento del permapicoltore, dunque, si limiterà alla falegnameria necessaria per la costruzione iniziale del nido. Dopo l’insediamento, la famiglia non dovrebbe subire raccolte di miele da parte nostra per 2 anni. Questo tempo viene indicato sulla base dell’esperienza di Perone ed è il tempo più o meno necessario alla famiglia per raggiungere un livello di prosperità tale da resistere bene ai prelievi di miele da mano umana; prelievi che, in ogni caso, devono essere fatti con criterio: innanzitutto, il primo melario (quello a contatto con il nido) non verrà mai raccolto.
Nonostante queste restrizioni (mi perdonerete l’antropocentrismo di questo capoverso), la produzione specifica di miele delle famiglie d’api allevate in permapicoltura sarà, nel tempo e grazie alla prosperità della famiglia stessa, molto maggiore che nel caso di un allevamento moderno.
Potrete già domani cominciare con la vostra arnia permapicolturale (si può costruire facilmente anche con legno recuperato) ed insediarvici uno sciame. Ricordate che, nella fase iniziale, non dovrete assolutamente montare alcun melario: l’includi-regina3 permette il passaggio d’ogni tipo di api per cui, se porrete subito tutti i melari, i favi di covata verranno costruiti istintivamente nel punto più alto a disposizione, rendendo impossibile per noi la raccolta! Mettendo all’inizio solo nido, telaio includi-regina e tetto, invece, le covate verranno iniziate (e mantenute!) nel punto più basso. Dopo circa due settimane potranno essere aggiunti i melari in tutta tranquillità.
A causa della scarsa documentazione prodotta, esistono molte versioni di questo tipo di arnia, con variazioni che riguardano essenzialmente le misure: tutte hanno, di fatto, lo stesso principio e la stessa struttura di base. Allego, dunque, le due varianti principali con cui sono entrato in contatto: quella più “chiatta” la potete trovare a questo indirizzo. Mentre quella più longilinea, la trovate nell’immagine in calce.
Spero che tutto vi torni utile: se siete arrivati fin qui, probabilmente saprete quanto la nostra fragile esistenza dipenda anche dal benessere e dalla prosperità delle api. Queste pratiche potrebbero essere un importante tessera da aggiungere al nostro puzzle per la fuga dal grigiore e dallo sfruttamento.
Gerri P. Malerba
bel blog complimenti e bello l’argomento. Sono un apicoltore alle prime armi, ma mi sento di suggerire che la permapicoltura va vista come un tentativo di rispettare le api in quanto esseri superiori. I danni e le parassitosi con cui si trovano a combattere le nostre amiche da qualche decennio sono state provocate da noi umani. E’ l’approccio umano che deve cambiare, abbiamo tutto da imparare dalle api ed in generale dall’universo e dobbiamo soprattutto imparare a comportarci da ospiti e non da padroni. In questo senso la permapicoltura è fondata sul non intervento sull’alveare. In natura esistono sciami selvatici che stanno benissimo senza l’intervento umano e sono resistenti alle parassitosi e malattie. Dobbiamo solo capire quanti danni abbiamo provocato in pochi millenni e se siamo in grado di starcene un pò tranquilli senza peggiorare la situazione, magari anche godendo delle meraviglie che ci circondano, (tra cui le api) senza badare solo sempre al raccolto e al profitto!! Buona vita a tutti
A parte le riflessioni socio-politiche e ideaismi (che non critico e in parte condivido), bisogna vedere se davvero questa tecnica apistica funziona! A me piacerebbe se funzionasse, e in caso certamente l’adotterei nel mio apiario, ma nutro qualche perplessità. 50 anni fa avrebbe funzionato bene. Ora non so:
1)rispetto alla varroa per, esempio, non credo che basti. Certamente può aiutare la famiglia, come il già sperimentato “Favo allargato” e “spazio mussi” ma non credo che basti! Mi può spiegare come le api riescono a sopraffare l’acaro? Riescono a non farlo entrare nella covata al momento dell’opercolamento? riescono meglio a staccarlo di disso e scaraventarlo a terra ed a farlo cadere dalla rete antivarroa (che non vedo descritta nella descrizione! senza quella, la lotta alla varroa diventa complicata!)
2) Per il ricambio dei favi come si procede? Perché immagino che lei sappia che ogni 3-4 anni vanno cambiati i favi del nido per assicurare maggiore igene, prevenire malattie e perché le celle si restringono (accumulo esuvie) e le api risultano più piccole. è un processo che avviene naturalmente in natura con la sciamatura e che viene fedelmente riprodotto (da chi lavora bene) nell’arnia razionale.
3) La sciamatura? non viene fatto nulla? Per esperienza se non si fa nulla (idoneo dimensionamento del nido, eliminazione celle reali, gestione dei melari etc…) si rischia di perdere metà famiglia a primavera!
4) Per l’invernamento riescono a tenere abbastanza caldo il nido ed a ripartire bene senza che il nido venga ristretto?
Detto questo mi auguro che funzioni!
Perché senza dubbio è NECESSARIO che l’apicoltura (come tutta l’agricoltura) si diriga sempre più verso tecniche SOSTENIBILI!
Ma mi raccomando, secondo i 3 PILASTRI dell’ecosonstenibilità
A) sostenibilità Ambientale
B) Sostenibilità Sociale/Etica
C) Sostenibilità Economica (l’apicoltore riesca a viverci!)
Domande molto interessanti di cui non trovo risposta su nessuna fonte web.
certo che prima di di fare certe affermazioni sarebbe il caso di conoscere un minimo l’argomento.
così non si fa informazione ma folclore.
Ti prego di argomentare: quali “affermazioni” di G. Malerba non ti convincono e perché? Grazie.
Anch’io sarei curioso, essendo l’autore. È una tecnica che, suppur abbia già dato da diversi decenni risultati ottimi, rimane ancora “di nicchia” ed, in generale, credo che sarebbe interessante aumentare la discussione in merito.
Sarei molto interessato anche io ad avere delucidazioni riguardo alle domande poste da Giuseppe, nel commento del 21 Gennaio 2015, su internet è praticamente impossibile trovare informazioni esaustive sull’argomento e non ho ancora avuto la possibilità di confrontarmi di persona con qualcuno che praticasse la permapicoltura.
Grazie, un saluto.
Trovo interessante linkare un paio di articoli tratti dal sito di Earth First!
1) Uno sciame d’api abbatte un drone (date un’occhiata al video): http://earthfirstnews.wordpress.com/2013/04/10/anarchist-beekeepers-claim-responsibility-for-u-s-drone-attack/
2) Api robotiche (sic) sono state progettate e costruite dall’Harvard Microrobotics Lab: http://earthfirstnews.wordpress.com/2013/04/08/robotic-bees-to-pollinate-monsanto-crops/. Serviranno nominalmente per l’impollinazione artificiale, ma non si escludono altri usi (cfr.: http://robobees.seas.harvard.edu/).
Ringrazio molto il caro G. per il suo breve ed incisivo scritto sulla permapicoltura.
Molti di voi forse si staranno chiedendo perché mai su questo spazio web, che era dedicato finora unicamente a tematiche letterarie e/o sovversive, si parli di pratiche primarie “alternative”.
Ebbene, se vi state ponendo una simile domanda, non avete letto con attenzione (e fino in fondo) le mie Note sulla sovversione senza padroni, perché in tal caso comprendereste quanto una simile pratica vada nel senso di una riappropriazione dei saperi umani essenziali e, in generale, di una nuova autonomia dell’umano, nonché nel senso di un maggiore rispetto dell’esistente (voi chiamatelo “natura” o “pianeta Terra”) e, conseguentemente, anche contro ciò che riduce e mineralizza sempre più la vita, vale a dire: il capitale in tutte le sue manifestazioni storiche (lavoro salariato, denaro, merce, sfruttamento, sessismo, specismo, e così via).
I massimi sistemi – le teorie – non servono a molto, se non si sa raggiungerne praticamente le finalità e concretizzarne le idealità. Viceversa, l’immediatismo spontaneista di tante piccole pratiche non porterebbe a grandi (e auspicabili) sconvolgimenti sociali, se non fosse accompagnato anche dal movimento della teoria.
Chiaro il concetto?
In parole povere, la rivoluzione non la faremo di certo con la permapicoltura, ma la faremo anche con la permapicoltura.
Nei prossimi mesi, seguiranno altri post del genere: sul lievito fatto in casa, sui prodotti di cosmesi autoprodotti e naturali, sul sistema operativo Linux, ecc. ecc.
Bisogna abbattere le mediazioni che il capitale impiega per separare gli umani. Bisogna riconquistare lo spazio – l’autonomia – per un saper-fare singolare e di gruppo che possa sviluppare e rendere gioioso il nostro voler-vivere. Non abbiamo bisogno del capitale per vestirci, mangiare, abitare, amarci, ecc., ed è bene rimboccarsi le maniche, prima che questo mondo venga ridotto in toto ad un macchinismo cibernetico.
Spero di essere stato chiaro.
P.S.: so che i vegan e gli antispecisti potrebbero avere da ridire, anche a giusta ragione, sull’allevamento delle api e il consumo di miele – e vedere peraltro un che di contraddittorio in ciò che ho appena affermato. In realtà, gli strappi rivoluzionari si preparano e si costruiscono attraverso l’allargamento di pratiche sempre più rispettose delle varie forme di vita e di “progressiva” erosione della macchina capitalistica. Se ciò non vi piace, andate oltre e migliorate a modo vostro e più a fondo questo mondo. Criticare è facile, è comodo. Molto più complicato è dare dei colpi concreti e non recuperabili alla macchina-capitale, senz’aspettarsi deterministicamente che ci pensi una qualche Provvidenza rivoluzionaria.