Tra me e te, c’era l’intraprendenza che prepara l’intesa. Un desiderio di potenza, potremmo dire, che raccoglieva tutta l’ostinazione dei nostri corpi.
Non mantenevamo più un limite, non potevamo permettere che i giorni consueti ci allontanassero da ciò che già s’intuiva; e quell’intervallo tra il reale e l’immaginario (l’impossibile che viene, che viene senza cedimenti) ci negava al banale disastro degli amori mancati.
Quando tu non c’eri – quando la tua assenza progrediva in un mio accanimento contro la necessità che ci separava – mi andavo sprofondando in esercizi d’incarnazione, in ritmi che spezzavano il rumore di fondo di quel mio corpo inevaso. Bastava la fascinazione di una sola immagine a farmi tendere il sangue verso un fondato rigore.
Ammiravo le tue foto. Cercavo di trarne una presenza; ogni volta fuggitiva, certo, ma anche indiscutibile, capace cioè di renderci in una presa reale, in un luogo solo nostro che mi liberasse, almeno per pochi istanti, dal fragore della distanza.
Ammiravo le gambe spalancate su quel divano rosso. Il culo proteso verso di me, verso l’obiettivo dei tuoi anni passati e futuri, di tutti quegli anni che non ti possedevano e che tu stavi per regolare senza irrisione.
Costruivo icone per il mio cazzo, imboscate di figure, reticoli di carne e tenerezza per avere tra le mani non il passato raffigurato o un futuro incontenibile, bensì la presenza di te attraverso il mio sesso. Generosità di un noi in potenza. Invadenza di sangue. Significazione per antonomasia dell’eccesso che ci riempie dell’altro, dell’idea dell’altro, e che invoca una soddisfazione senza fine, uno svuotamento della propria esuberanza dentro l’eccesso dell’altro.
Forse niente è più solenne e patetico di un uomo itifallico. Il cazzo ritto è una delle immagini più vere e triviali della potenza, la quale però si perverte in potere, ossia in uno sfruttamento arrogante e gerarchico della potenza (imbrigliata e resa a quel punto autoreferenziale), ogni qual volta non si riconosca l’importanza della cavità che gli dà luogo, delle aperture che lo chiamano, dei vuoti mai anonimi che, accogliendolo con gioia, sperimentano insieme ad esso la sospensione amorosa di ogni contraddizione.
Gli amanti si sentono sempre gli ultimi – i definitivi – coloro che abbandonano l’immagine di sé alla dimenticanza del mondo, all’esodo.
[Mi diverto, fra me e me, ad immaginare la condizione che vivrebbe l’ultimo cazzo o l’ultima fica sulla Terra, con cui sparirebbe, nell’indifferenza del cosmo, il piccolo mistero dell’uomo.]
Non ho mai riso delle comunità umane che interdicono qualsiasi raffigurazione antropomorfa o animale della divinità.
In fondo, ogni immagine che richiami l’incidenza del vivente porta con sé l’evocazione dell’ansimo, degli umori, dei sessi che s’inturgidiscono. (…)
C’è un rischio essenziale nell’immagine che riporta brani del vivente: il rischio di un’apertura ineludibile sulla corporeità (anche residuale) che rimane in gioco. Pur da lontano, pur in effigie, il corpo umano non occulta mai del tutto la natura dell’impossibile o dell’indicibile; anzi, la invoca a gran voce aprendosi all’accettazione ironica di ciò che lo uccide, mai vietandosi, in ogni modo, la critica della morte o delle tante redenzioni spacciate al dettaglio.
Anche l’immagine evocata dalla poesia può avere la potenza di aprire brecce, utilizzando alla bisogna un qualsiasi frammento di questo mondo per evocarne la compiutezza o per svilupparne la tensione in un movimento perentorio.
La scrittura più forte è sempre una scompaginatura, un fare orgia tra le idee, le figurazioni, i desideri, al fine d’averne un sedimento aurifero, torrentizio, da raccogliere e rimettere in circolo, dando così un altro letto a quel pensiero che attenta alla stabilità della parola senza tradirne le voci. (…)
Secondo paragrafo del mio Quest’amante che si chiama verità (Gwynplaine edizioni, 2014). L’illustrazione è un dipinto di Pierre Lacombe (Le magicien).
L’ha ribloggato su sergiofalcone.