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«La verità è che non credo così tanto nella scrittura. A partire dalla mia. Fare lo scrittore è piacevole – no, piacevole non è la parola giusta – è un’attività che ha i suoi momenti divertenti, ma conosco cose che sono ancora più divertenti, divertenti allo stesso modo in cui lo è per me la letteratura. Rapinare banche, ad esempio. O dirigere film. O fare il gigolò. O tornare bambino e giocare in una squadra di calcio più o meno tremenda.», Roberto Bolaño.

Per me la scrittura è sempre una seconda scelta, una gestione divertente dell’attesa. Si provoca la vita, la si evoca quando stenta, si cartografa il territorio dove attecchisce l’esperienza.
Al fondo della scrittura – nelle parentesi che stringono la forma – c’è come un’esortazione al denudamento felice, alla rapina, alla redistribuzione gioiosa delle ricchezze.
Parlo di denudamento perché si tratta di una superficie che ci rivela al mondo e a noi stessi, costringendoci a sganciare la volontà di parola dai percorsi obbligati e superficiali del diritto, dello stile.

Le storie degli altri attentano al mio stile, alla morale del mio linguaggio. Tuttavia non m’interesso al loro racconto, bensì alla potenza del loro narrare, alla massa di eventi morti e di eventualità vive che scaturisce dal culmine della loro volontà di parola.

La pentalogia bolañiana di 2666, ad esempio, costituisce una narrazione che non mira a fornire prove o ad elevare la “coscienza”. Leggendola, ci si percepisce in compagnia di una folla di contraddizioni che non si risolve, che non si subordina ad una dialettica, ma che ci irretisce perché ci rende somiglianti alle sue esposizioni, alle sue varianti dell’umano messo in mostra (e messo in mostri).

La lettura torna ad essere un fenomeno conturbante quando ci rende quieti perfino nel disastro. Il che non prova ancora nulla, eccetto l’infinito srotolamento del senso e il proprio stabilirsi volontariamente all’interno di un castello sadiano del discorso dove si cercherà di corrompere con ostinazione gioiosa le forme adottate dalla massa.

Laddove si mostrano delle tracce e non si costruiscono delle prove, il territorio del senso è un’ampia eventualità.

Qualche anno fa, presi una decisione: disporre tatticamente pensieri e parole lungo il flusso dei miei giorni prendendo a modello l’organizzazione in campo dell’Olanda di Cruijff nel cosiddetto “calcio totale”. Il che significa indurre ogni elemento della teoria e della forma a ricoprire più ruoli, più stili, pur nell’unicità di un andamento, nella continuità di un ritmo.
È questione di tecnica e di potenza: imparare a coprire ogni zona del campo, muovere incessantemente il pensiero, creare delle improvvise consistenze nell’ambito della teoria o della narrazione, in modo da pressare l’avversario, scompaginarne l’assetto discorsivo, sguarnirne la difesa.

«[Svetislav Glišović] saltava dalla descrizione di un terreno imbevuto d’acqua e scivoloso, di cui occorreva tener conto, alla regola del tre, in cui la velocità dell’ala in fuga verso la porta avversaria è proporzionale al coseno di quella del difensore che lo sgambetta. Il calcolo del conseguente calcio di punizione prendeva in considerazione una serie di fattori, compresa l’età del capitano.», Vladimir Dimitrijević.

Se devo dare un nome a questo gioco, lo chiamo ancora poesia. Senza centro, senza idee fisse. Mirare alla compiutezza di ogni esperienza. Scrivere per il desiderio di una lealtà. Passare per le armi buona parte degli aggettivi onde lasciar nudi i nomi che mi stregano.

La compiutezza non sta nell’opera, ma nella febbrile attesa che la rilancia.

Quel desiderio di totalità che ci seduce ad intervalli irregolari non è un desiderio di quantità (di potere), bensì la preparazione di una nuova euforia nel rigore dell’apertura. Dissipazione gioiosa, quindi.

Un incrocio surrealista tra Max Stirner, Arturo Belano e Diego Armando Maradona. Anzi, non surrealista, ma più esattamente anarcovisceralista.



Testo scritto nel 2014 e confluito in: Esercizi di accanimento (2017). Illustrazioni: in alto, la Mano de Dios; in basso, un’opera di Philipp Igumnov.


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