Tag

, , , , ,

Quattro poesie della quebechiana Éliane Michaud e un brano della mia prefazione al volume ne raccoglie l’opera in versi:

  • Éliane Michaud, C’è una verità che muore a ogni pompino, a cura di Carmine Mangone, Ab imis, 2018, testo originale a fronte, 100 pp., ISBN 9780244066208.

 

Le opere che illustrano il post sono di Antoine d’Agata (in alto) e Gyo-Beom An.

 

 

Éliane Michaud

*

Lusingare la fonte dei sospiri.
Legarsi a ogni carezza vagante.
Concepire il culmine.
Amare la ferita ridendo del sangue.

*

Mentre il piccolo vangelo del mio culo
ti mette sugli attenti,
un uccello si confonde col vento
e i sogni dei poeti si confondono
con le loro barchette di carta.

Quattro del mattino.
Inizio a masturbarti.
La parola cazzo sventa
la parsimonia del giorno.

*

Metto alla prova tutti i miei sì
e continuo a cullare la questione che ci ucciderà.
Si deve ridere dell’ambizione,
della paura,
del peggio di noi stessi di fronte alla tentazione.
In un paese che imprigiona le notti,
i miei sogni in piena luce
hanno il colore dei tuoi occhi
e non mi lasciano più dormire.
Infiorescenza del senso,
meraviglia sfibrante,
un intero universo è appena inciampato
in questi miei quattro versi.

*

Cosa resterà di ciò che ho scritto?
La mano tesa all’ignoranza.
Il mio nome scritto sull’acqua.
I buongiorno che si son persi per strada.
Cosa resterà?
Che cazzo resterà delle mie
pretese?
Mi affidate le vostre speranze,
ma io non credo più
ai santini dell’amore.

L’amore, ‘sto stronzo, è solo una
colica dello spirito.


 

Dalla prefazione di Carmine Mangone:

(…) I versi di Éliane Michaud hanno ben poco di edulcorato e sembrano tagliati con l’accetta. Risultano infatti brucianti, netti, decisi. Non si perdono in finezze formali, né scimmiotta­no pedissequamente i riferimenti europei che s’intuiscono in filigrana. Certo, il debito ver­so la poesia francese del Novecento mi pare evidente. Alcune poesie possono richiamare alla mente i testi della surrealista Joyce Man­sour o la struttura epigrammatica di Paul Éluard, come pure la durezza cristallina del quasi omonimo Michaux o la scarna potenza de’ L’Archangélique di Georges Bataille (quest’ultimo viene perfino tirato in ballo in uno dei frammenti michaudiani). Tuttavia, ri­spetto a questi ipotetici modelli, la Michaud ha il dono innegabile dell’ironia, che va ben al di là degli afflati decadenti e retorici batail­liani o dell’humour nero di bretoniana memo­ria; ironia che apparenta semmai la sua poesia a quella della praghese Jana Černá, a certe composizioni di Prévert, o addirittura alla leg­gerezza e al disincanto di Emily Dickinson (…).
A mio avviso, però, il vero tratto distintivo della poetica michaudiana resta il suo tenersi in equilibrio tra un orgoglio di genere («Non sono la musa di nessuno») e la tenace volontà di esperire l’amore in ogni direzione, in ogni possibile, senza precludersi quindi alcuna esperienza, alcuna sperimentazione.
Al di là della sua bisessualità, che le fa sco­prire la carne e «l’essenza del medesimo», e nonostante i sarcasmi che non risparmia né ai maschi, né ai luoghi comuni dell’amore e del­la poesia, Éliane Michaud si vuole come «breccia incauta nell’inverno degli uomini», come baluardo carnale contro il nulla che avanza, perché, a suo dire, «l’amore cancella ogni stronzata», il che potrebbe anche voler dire che l’amore distrugge ogni banalità, che esso diventa tutte le banalità al fine di annien­tarle, pur tornando ogni volta a morire, pur facendoci mancare a noi stessi quando si vie­ne, quando l’altro viene, dopo il culmine, dopo la fiammata dell’amplesso, o allo spe­gnersi inesorabile delle insurrezioni amorose. (…)